“Ma sentiti, non riesci neppure a parlare. Piuttosto, dov’è Frida?”

“E che ne so io.”

“Non è mica mia figlia. È tua figlia, anche se sembra che te ne sei scordato.”

“Lasciami in pace, dammi un po’ di tregua. E che ne so io dove diamine si è ficcata quella disgraziata.”

“Le avevo chiesto di darmi una mano con gli spiedi, stasera.”

Ulvo diede una placida occhiata alle sue spalle. “Non mi pare che c’è tutta questa folla”, ribatté.

“Ma che ne sai tu di tutte le cose che devo fare. Guarda lì”, Benjam indicò la carcassa d’agnello che penzolava attaccata a un gancio dietro al bancone, “non ho ancora trovato il tempo per scuoiarlo. E poi guarda che pantano.” In effetti l’impiantito della sala era lurido di fango. “Tu te ne stai lì a ubriacarti”, si infervorò l’oste, “e intanto tutto grava sul mio groppone.”

“Senti Benjam”, cominciò l’altro allungandosi sul bancone. “Ma non è che per caso tua madre mangiava le ghiande?” La molestia che Ulvo sfoderava in momenti come quello era senza dubbio accompagnata da un certo estro creativo.

“Cosa?”

“Se tua madre mangiava le ghiande, significa che...”

“Ma che diamine blateri?”

“Hai presente la stalla dei maiali... il porcile... tutto quello sterco... Perché non ti ci vai a rotolare, in tutto quello sterco?”

Una voce squillante si elevò nella locanda al di sopra delle chiacchiere: “Sì oste, ruzzolati nello sterco. Ma prima portami un’altra brocca di vino rosso”.

Si trattava del giovanotto al tavolo di Macba. Seguì la sonora risata di uno dei tre uomini seduti al centro della sala, un massiccio guerriero calvo con un paio di baffi che gli scendevano fin sotto al mento. Indossava una cotta di maglia e dal fianco gli pendeva una sciabola. Anche i compagni non ispiravano alcuna fiducia. Devono essere dei mercenari, pensò Benjam. Si stupì che rimanessero così calmi.

Mentre riempiva la caraffa, si rese conto che il vino nell’otre sul banco stava terminando. Prese la lanterna e si affrettò giù per le scale che conducevano alla cantina.

Nella penombra, tra botti e barilotti, Benjam rimuginava fra sé. Quella era una serata strana, pericolosa. Non avrebbe saputo spiegarne le ragioni, ma lo sentiva. Forse era solo il freddo o il vento che ululava fuori nel temporale, si disse. Eppure c’era qualcos’altro nell’atmosfera che non faceva presagire niente di buono. L’oste non si sentiva affatto tranquillo. Decise di accendere qualche lume in più per diminuire la semioscurità della sala. Con tre grossi mozziconi di candela in una mano e un barilotto di vino nell’altra, risalì in fretta le scale.

Poco dopo si aggirava nella sala accendendo gli stoppini dei candelabri e sbirciando i volti degli avventori. Il tavolo dei mercenari era accanto a quello di Macba. Lo sguardo di Benjam indugiò sull’indovina: la crocchia di capelli arruffati, il volto come una mela vizza, il biancore tra le palpebre socchiuse. Si era trasferita nella casetta dietro alla locanda, ma la sua fama non l’aveva abbandonata. Nonostante fosse quasi del tutto cieca, riusciva ancora a sbarcare il lunario sfruttando le sue doti di chiaroveggente.

I due pastori a cui aveva consigliato la zuppa di montone sembravano soddisfatti.

E poi c’era quell’uomo, seduto al tavolo nell’angolo. Avvolto in una cappa di pelle, dava le spalle alla sala. Era arrivato in sella a un destriero nero, con un baule di ferro e una strana sacca. Le vesti fradicie, appena entrato si era diretto al tavolo senza proferire parola. L’oste lo aveva osservato con una certa preoccupazione. I movimenti flemmatici dello straniero avevano un che di inquietante; e quegli stivali chiodati, quel cappuccio calato sopra la testa...

Il forestiero aveva ordinato un bicchiere di acquavite. Ripensandoci, l’oste si rese conto di non averlo ancora visto in volto. Si stava avvicinando per dar fuoco all’ultimo stoppino, quando venne richiamato.

“Quanto devo aspettare ancora!?” gli stava gridando il giovanotto. Benjam lasciò perdere il candelabro e tornò subito al bancone. Mentre si affrettava a riempire la brocca, si maledisse per la dimenticanza. Quello sbarbatello sembrava proprio cercar rogne. Doveva fare attenzione. Sapeva bene che bastava poco perché si accendessero gli animi.

Il giovanotto si rivolse al guerriero calvo: “Che c’è, brutto muso? Che hai da guardare?”

Benjam sentì un groppo in gola. Il fiato sospeso, la bocca dello stomaco ostruita. Il guerriero rimase muto. Da non credersi. L’oste ne approfittò per sopraggiungere col vino. Una volta al tavolo, dopo aver appoggiato la caraffa, aspettò di essere pagato.

“Be’, che ci fai ancora qui?” gli domandò il giovanotto.

“Sono cinque monete di rame.”

“Ti paga il pelato.”

“Chi?”

“Quel pelato lì.” Il giovane indicò il guerriero massiccio. Aveva perso il senno? Benjam si voltò tremebondo verso il gruppo di mercenari. Uno dei compagni stava mettendo una mano sulla spalla del guerriero scuotendo la testa. L’oste si era aspettato una reazione violenta. Avrebbe giurato che quelli fossero uomini sempre pronti a fracassare tavoli. Invece, come se niente fosse, i tre rimasero seduti in silenzio.