Prologo

Quando l’ultimo invitato uscì dal cancello del cortile, tirai un sospiro di sollievo. Guardai l’orologio, borbottando.

Si erano fatte le undici di sera.

La festa per il quinto compleanno di Evelyn era durata fino a tardi, sembrava che i vicini non se ne volessero più andare. Colpa dei dolci di Geraldine, pensai, prendendo il giubbotto dall’attaccapanni e gettando uno sguardo in sala, dove Meb era intenta a sistemare la tavola sulla quale campeggiavano pile di piatti e bicchieri.

«Per stasera non puoi rimandare?» mi chiese piegando la tovaglia.

Feci spallucce. «Tesoro, il dovere è dovere, lo sai anche tu. Farò un giretto più breve del solito, promesso.»

«Va bene. Ti aspetterò alzata. Ma cerca di fare presto, c’è un brutto tempaccio» mi rispose Meb. «C’è una confusione tale che ne avrò per un bel po’.»

Mi sistemai il cappello sulla testa e mi diressi verso la porta. Il furetto di Evelyn si era piazzato davanti all’ingresso.

«Ehi, Stillygan! La tua padroncina ti ha cercato per tutta la serata, ma dove ti eri cacciato?»

Lo presi tra le braccia e lo misi sul suo cuscino, vicino al divano. Il furetto protestò con un sonoro squittio, mi fissò per un istante, poi iniziò a leccarsi le zampe e il muso come faceva ogni sera.

                                                             *

Uscii, mi strinsi nel giaccone e alzai il bavero. Soffiava una brezza pungente e gocce fini di pioggia scendevano da un cielo gravido di nuvole.

Mi avviai rapidamente attraverso il giardino, lungo il sentiero che correva verso ovest. Scesi gli ultimi scalini scavati nella roccia e tirai un sospiro.

A pochi passi da me il parco di Shallow Tree era immerso nel silenzio. I suoi alberi centenari svettavano immobili come antiche colonne, sebbene il vento spirasse con forza sempre maggiore. Poco lontano, le rovine del Castello di Fermoy, con le sue stanze fatiscenti e le torri spettrali, giacevano indisturbate da secoli.

Proprio in quell’istante un lampo ne stagliò la sagoma contro il cielo, mostrando uno stormo di corvi che planava verso le mura merlate in rovina per mettersi al riparo dal temporale.

Affrettai il passo, perché in quella serataccia non mi andava di stare troppo a lungo lontano da casa. Attraversai il parco e raggiunsi la piazza di fronte al vecchio ponte di pietra. In tutta fretta aggirai le recinzioni che delimitavano il perimetro del burrone e lo vidi. L’Arco d’Avorio.

Un ponte stretto e arcuato si allungava sopra il Salto per una ventina di metri, per poi scomparire dietro una cortina di foschia. Sotto, un baratro immerso nella nebbia tutti i mesi dell’anno. Ogni giorno, ogni ora. Per sempre.

Mi incamminai sul ponte, gettando di tanto in tanto uno sguardo di sotto.

Restando in ascolto, potevo udire il gorgogliare dell’acqua, come se un fiume scorresse in fondo a quell’abisso.

Avanzai. Incurante della pioggia e del vento, stando bene attento a non scivolare sulle pietre dissestate o sul muschio fradicio, giunsi fino a metà dell’Arco d’Avorio. A terra, incastonate tra blocchi di marmo talmente bianco da sembrare avorio, intravidi due scanalature che scintillavano. Mi inginocchiai e con una mano le ripulii dalla fanghiglia.

Una era d’argento. L’altra d’oro.

In quel punto la nebbia si fermava, come se fosse bloccata da un muro invisibile, oltre il quale era così fitta da fondersi con l’oscurità.

Mi guardai attorno, teso. Avrei perlustrato il ponte per altri dieci minuti, non di più. Poi sarei tornato a casa. Fu allora che una luce improvvisa mi abbagliò. Osservai il ciondolo a mezzaluna che portavo appeso al collo e mi accorsi che ardeva di un’accecante luce blu cobalto. In quell’istante un rumore alle mie spalle mi fece trasalire. Mi voltai.

«Stillygan!» gridai. «Che ci fai qui? Perché sei uscito di casa?»

Il furetto squittiva nervoso, muovendosi rapidamente in cerchio sul ciglio del ponte.

Tentai di accarezzarlo, ma Stillygan si divincolò dalla mia presa rischiando di cadere di sotto.

«Ma che ti prende? Sta’ calmo!»

Qualche pietra precipitò nel vuoto, scomparendo nella nebbia.

«Papà?»

Mi voltai di scatto.

«Papà? Papà, dove sei?»

La foschia al di là delle due scanalature incise nella pietra si stava diradando, rivelando la sagoma di una bambina seduta per terra. Quella di mia figlia. Il mio cuore perse un battito.

«Evelyn?» domandai, disorientato.

Lei mi guardava con occhi gonfi di lacrime, tremando dalla testa ai piedi. Rimasi pietrificato per qualche istante, mentre il vento e la pioggia le sferzavano il volto. Avevo visto Geraldine accompagnarla in camera sua qualche ora prima. Come aveva fatto a oltrepassare il Varco?

«Evelyn!»

Avrei dovuto mantenere la calma, ma non ne fui capace. Strinsi il ciondolo a mezzaluna e socchiusi gli occhi. Un alone di luce cangiante si proiettò oltre la metà del ponte e la nebbia prese a sfaldarsi in nuvole di vapore. Ma quando tentai di raggiungere Evelyn, lei era scomparsa nel nulla.

Rimasi in ginocchio, sconvolto.

«Evelyn…» mormorai, mentre mi assaliva uno strano presentimento. Osservai i miei abiti che cambiavano foggia e colore: le scarpe trasformarsi in stivali, il cappello allungarsi a forma di cilindro, i capelli castani diventare neri e scendere fin sotto il collo. Le mani, rivestite di guanti lucidi come l’ossidiana, stringevano un bastone d’ebano.

Avevo varcato il confine.

Ero nel Mullagh Maat.

                                                              *

Che cosa ho fatto?

Un dubbio atroce mi assalì. Ero stato uno sciocco, mi ero fatto prendere dall’agitazione. Arretrai, confuso.

Ma non ebbi il tempo di riflettere. Un vortice di tenebra squarciò il suolo, da cui emersero mani affilate come artigli e una bocca piena di denti appuntiti, bianchissimi. Quell’essere non aveva alcuna forma: era solo un ammasso di buio e notte, tanto densi da sembrare palpabili. Poi la creatura emise un grido e scuotendosi di dosso zolle di terra e fango iniziò a prendere corpo, assumendo l’aspetto di una donna.

Emergendo dalla foschia, avanzò sul ponte con incedere lento, tra il fragore della pioggia e le urla del vento. Aveva il viso emaciato, di un pallore lunare, i lineamenti affilati e le labbra livide. Sotto la pesante arcata sopracciliare risaltavano due occhi scuri come la pece.

«Murigen, la Regina dei Senzastelle» mormorai.

La donna piegò le labbra in un sorriso impercettibile. «Che immenso piacere rivederti, Sefra.»

Una cascata di capelli neri le incorniciava il volto, scendendo lungo la schiena fino a toccare terra. Le ciocche, intrecciate con piume di corvo e piccoli fiori color blu notte, si muovevano in modo innaturale, come dotate di vita propria. Il corpo esile era fasciato da una veste grigia coperta di simboli primordiali e rune.

Scattai in piedi serrando i pugni.

La luce del ciondolo a mezzaluna era diventata più intensa. Tenendolo stretto al petto, sollevai il bastone davanti a me.

Murigen sorrise divertita, estraendo un pugnale affilato. La lama era coperta di incisioni ed emetteva una luce fioca.

Poi la Regina dei Senzastelle scivolò come un’ombra sul terreno, avvicinandosi. Indietreggiai di un passo, finché non sentii la terra franare sotto i miei piedi.