Gli faccio un cenno di saluto mentre faccio manovra per uscire, ma lui si è già voltato e non mi vede nemmeno. Non posso fare a meno di rimanerci male, pur sapendo quanto lavoro ci sia da fare, oggi come ogni giorno. 

L'amore non va mai pari passo con la razionalità.

Seguo la strada giù per la collina. Il calore mi fa annaspare, un rivolo di sudore serpeggia nel solco dei seni. Attraverso il bosco di cedri e costeggio immensi campi di grano, dove i papaveri chiaccherano, oscillando sui loro steli.

La strada dopo un'ampia curva scorre lenta fino a raggiungere la costa. Le onde sono scivolate verso ovest, simili a soldati in marcia dal corpo increspato di viola, lasciando il ventre del mare nudo allo sguardo del mondo.

La distesa di sabbia grigia è costellata dagli scheletri delle creature abissali. Tra i resti un gruppetto di persone lavora frenetico. Le immagino raccogliere tutto ciò che possono con rapidità, prima del ritorno della marea che è spesso imprevedibile e violento.

All'inizio del paese c'è il piccolo mercato distrettuale, le bancarelle ombreggiate da tendoni azzurri si piegano sotto il peso delle mercanzie. Parcheggio in una nuvola di polvere. Un paio di paesani mi salutano, sfiorandosi il berretto con due dita. Le mogli guardano sprezzanti.

Carlos il pescivendolo nel vedermi stringe gli occhi. Sta buttando manciate di ghiaccio sul pescato del giorno: crostacei, qualche polpo tanto sfortunato da rimanere intrappolato nelle secche, un enorme pesce spada, di cui però restano pochi tranci.

 - Mica ti aspettavo oggi, non è rimasto granché. 

 - Mi dispiace. -  Mi mordo le labbra, sporgo il petto in avanti, passo una mano tra i capelli, sorrido.

 - Fa così caldo, dammi un po' di ghiaccio. 

Porge una scheggia dal catino appoggiato a terra, sento il suo sguardo mentre la passo sul collo, dietro le orecchie. Un tempo sarei arrossita.

 - Eh, che ci devo fare? Mica posso mandarti via a mani vuote. Le belle donne a me mi piace farle felici. Vieni, va'. -  

Quando faccio il giro del banchetto mi posa una mano unta sul fianco, guidandomi verso il suo camioncino. Puzza di alghe e di limoni troppo maturi, le sue dita mi affondano nella pelle come a saggiarne la consistenza.

Mi tira il braccio verso il basso per avvicinare la testa al mio orecchio, la sua voce ha un tono carezzevole, insinuante:  - Vengo a cena, una di queste. Un granchio, qualche riccio di mare, un po' di vino, eh? - 

 - A Victor farebbe piacere un po' di compagnia maschile. Sei gentile ad offrirti. -  Sorrido in modo svampito. Borbotta qualcosa e mi lascia andare, spalanca lo sportello del camioncino con un gesto brusco, facendolo sbattere.

 - Be' cosa ne dici? Non posso mica stare qui tutto il giorno. 

I miei occhi contemplano la sagoma riversa nell'oscurità del vano. L'odore di salsedine è forte, quasi insopportabile. Deglutisco. Accettare porterà un'altra parte di me oltre quella porta chiusa, in un luogo senza ritorno.

Il pescivendolo mi aiuta a sistemare il carico nel retro del pick-up. Parto piano piano, osservando nello specchietto lo scintillare delle squame al sole, come  pietre umide al limite della risacca. 

A metà strada devo fermarmi per lasciar passare un gruppo di pecore. Mi volto, sperando che il mio acquisto sia ancora privo di sensi. Al contrario ha gli occhi aperti, neri come ciottoli. La bocca si apre per emettere un verso stridulo, seguito da un ticchettio. 

Prova a muovere la pinna, ma Carlos ha assicurato il corpo oblungo con delle cinghie. Ho un groppo in gola, mi volto. Il mondo diventa incerto, offuscato dall'acqua che mi scorre sulle guance.

 - Qui c'era il mare, una volta. 

Parlare mi fa sentire meno infame, anche se secondo i biologi non possono comprenderci.

 - L'acqua si è ritirata dopo il disastro del dodici, ma puoi ancora trovare conchiglie nei campi. Magari hai nuotato dove ora c'è l'erba. Le alghe scommetto che stavano zitte. Almeno quelle.

Il sole scompare dietro una coltre di nubi, l'aria ha assunto una tonalità bluastra, come fossimo immersi in una bottiglia di inchiostro. Oltre le montagne si sente il rombare del tuono. Mi sembra passino ore, prima di intravedere il tetto di casa.

Victor mi aspetta sotto il portico. Quando vede quello che  ho portato sussulta e si fa il segno della croce. Tamburella le dita contro la lamiera, si allontana dal pick-up, poi torna indietro e guarda ancora.

 - Aiutami, per favore. 

Apre la bocca per dire qualcosa, la richiude. Salgo sopra il pianale, facendogli cenno di afferrare la coda. Il contatto con la pelle del torso non è spiacevole, anzi. È untuosa ma calda.

Insieme ci avviamo a passo stentato verso la stalla. Cadono le prime gocce di pioggia. Una volta dentro, l'odore del fieno si mescola a quello di salsedine. I piedi affondano nella paglia.

Dalle ombre scivola verso di noi una marea  di dorsi pelosi, le code dritte. Gli occhi spalancati brillano famelici. Le fusa sono assordanti, le sento riverberarmi nelle ossa. Non potrei mai farne a meno.

Victor mi porge un scure, poi incrocia le braccia e poggia la schiena contro la parete di legno. Lo capisco. Mio l'acquisto, mia la responsabilità. Anche se ama i gatti quasi quanto li amo io. Sospiro a fondo, mi inginocchio sul terreno.

Mentre sto per calare la lama sul suo collo, la sirena emette un verso interrogativo. La morte credo le darà tutte le risposte. Almeno, lo spero.