La copertina della versione paperback di Under Heaven
La copertina della versione paperback di Under Heaven
Erano troppi. Non aveva nessuna speranza di portare a termineil lavoro – era un compito adatto agli dèi dei nove cieli,non a un semplice uomo. Ma non poter fare tutto voleva forse dire non fare niente?Da due anni, ormai, Shen Tai ripeteva la sua risposta a questa domanda, in memoria della voce gentile di suo padre che chiedeva un’altra coppa di vino intento a osservare grandi pesci rossi nuotare pigramente tra i fiori sparsi sulla superficie dello stagno.

I morti erano ovunque, perfino sull’isola. C’era stato un forte lì, una piccola rocca ormai in rovina. Tai aveva provato a immaginare i combattimenti che si spostavano in quella direzione. Imbarcazioni costruite in fretta e furia sulla riva sassosa con gli alberi della collina. Gli ultimi disperati senza scampo, di un’armata o dell’altra – le sorti cambiavano di anno in anno – che tiravano le loro ultime frecce agli implacabili nemici che avanzavano attraverso il lago portando con sé la morte.

Aveva scelto di iniziare da lì, due anni prima, utilizzando la piccola imbarcazione che aveva trovato e riparato. Era un giorno di primavera, e il blu intenso del lago rifletteva i colori del cielo e le montagne circostanti. L’isola era uno spazio limitato, ben definito, più gestibile. Sui prati della terraferma e fin nelle remote profondità delle pinete, i morti giacevano sparpagliati per più miglia di quante non riuscisse a percorrerne in un giorno di cammino.

Per poco più di sei mesi, sotto quell’alto, intenso cielo, scavava e seppelliva armi arrugginite e spezzate insieme alle ossa. Era un lavoro massacrante. Era diventato robusto e muscoloso, saldo come una roccia. La notte, attanagliato dai dolori del suo cimento, si lasciava cadere spossato sul giaciglio dopo essersi lavato con l’acqua riscaldata dal fuoco.

Dalla fine dell’autunno, durante tutto l’inverno e fino ai primi giorni di primavera, il terreno era ghiacciato, impossibile da scavare. Avrebbe spaccato il cuore di chiunque avesse provato a fare anche soltanto una piccola buca.

Il primo inverno che aveva passato lì il lago era ghiacciato, e aveva potuto camminare fino all’isola per qualche settimana. Il secondo era stato più mite, e l’acqua non aveva gelato. Tai allora, coperto di pellicce, con guanti e cappuccio, in quell’atmosfera bianca e immobile, osservando il vapore del suo respiro mortale e sentendosi minuscolo in quell’immensa e ostile vastità che lo circondava, aveva utilizzato la barca nei giorni in cui il tempo e le onde lo permettevano. Aveva offerto i morti alle acque scure con una preghiera, che potessero non giacere più dispersi, non consacrati, sulla terra graffiata dai venti delle fredde rive del Kuala Nor, tra gli animali selvatici e lontano da casa.

La guerra non era stata continua. Non lo era mai, da nessuna parte, e sicuramente non in una conca montana tanto remota, così difficile da rifornire con approvvigionamenti costanti per entrambi i Paesi, per quanto bellicosi o ambiziosi potessero essere re e imperatori.

Per questo si potevano trovare capanni costruiti dai pescatori o dai pastori, che portavano al pascolo pecore e capre in quei prati d’altura, negli intervalli di tempo in cui i soldati non venivano a morirci. La maggior parte era stata distrutta, ma alcuni erano ancora in piedi. Tai viveva in uno di questi, protetto a nord da un promontorio fitto di pini, un riparo contro i venti più forti. Quel capanno doveva essere stato costruito almeno cento anni prima. Al momento del suo arrivo, Tai si era impegnato a ripararlo come meglio poteva: un tetto, una porta e delle finestre, delle persiane e un camino di pietra per il fuoco.

E poi aveva ricevuto un aiuto inaspettato, non richiesto. Il mondo può offrire veleno in un calice ingioiellato, ma anche doni sorprendenti, e a volte non è facile capire di cosa si tratti. Qualcuno di sua conoscenza aveva scritto dei versi al riguardo.

Tai era sveglio, nel bel mezzo di una notte di primavera. La luna piena brillava alta nel cielo, il che significava che i Taguran sarebbero arrivati la mattina dopo, una mezza dozzina di uomini. Avrebbero ridisceso la via a sud con un carro di buoi, percorrendo il perimetro del lago, portando provviste destinate al suo capanno. Il giorno dopo la luna nuova sarebbe stata invece la volta della sua gente, che lo avrebbe raggiunto dall’est attraverso il passo dei Cancelli di Ferro.

All’inizio c’era voluto un po’di tempo ma poi erano riusciti a organizzare una routine che permettesse a ognuno dei due schieramenti di arrivare fin lì senza doversi incontrare. Tai non aveva alcuna intenzione di provocare altre morti a causa della sua presenza in quel luogo. C’era la pace ormai, firmata, sigillata da doni e da un matrimonio regale, ma queste verità non riuscivano sempre a imporsi quando soldati giovani e aggressivi si incontravano in luoghi lontani, e spesso erano proprio i giovani a provocare le guerre.

Le due fazioni trattavano Tai come un santo eremita o un folle che aveva scelto di vivere tra gli spiriti. Continuavano una tacita, quasi divertente schermaglia attraverso di lui, gareggiando per offrirgli più doni degli avversari, per aiutarlo sempre di più mese dopo mese.

La gente di Tai aveva provveduto a ripristinare il pavimento del capanno durante la prima estate, portando un carro pieno di assi tagliate e levigate. I Taguran si erano occupati di riparare il camino. Inchiostro, penne e carta (su richiesta) furono messi a disposizione dai Cancelli di Ferro, mentre il vino era stato portato per la prima volta dal sud. La legna veniva tagliata dagli uomini di entrambi i popoli, quando andavano fin lì. Erano state offerte pellicce invernali e pelli di pecora per il suo letto e per il suo guardaroba. Gli era stata regalata una capra da latte, e poi un’altra dalla parte avversaria, oltre a un cappello Taguran piuttosto eccentrico ma molto caldo, con due falde per proteggere le orecchie e un laccio da annodare sotto il mento, durante il primo autunno. I soldati dei Cancelli di Ferro avevano costruito una stalla per il suo piccolo cavallo.

Tai aveva provato a rifiutare tutti questi aiuti, ma non era riuscito a persuadere nessuno di loro a desistere, e alla fine aveva capito perché: non si trattava di gentilezza nei confronti di un pazzo, o di primeggiare sulla parte avversa. Meno tempo perdeva a procacciarsi il cibo, la legna per il fuoco e a mantenere il suo rifugio in buone condizioni, e più tempo poteva dedicare al suo compito, di cui nessuno si era mai occupato prima e che sembrava – ora che avevano accettato il motivo della sua presenza in quel luogo – stare a cuore tanto ai Taguran che alla sua gente.

C’era un’amara ironia in tutto questo, ed era un pensiero che attraversava spesso la mente di Tai. I soldati degli opposti schieramenti avrebbero potuto provocarsi e massacrarsi a vicenda perfino ora, se fosse capitato loro di arrivare lì nello stesso momento, e soltanto un autentico pazzo avrebbe potuto pensare che le battaglie nell’Ovest erano finite per davvero, ma i due imperi onoravano il fatto che lui si trovasse lì per dare una degna sepoltura ai morti, finché non ce ne fossero stati di nuovi.

Dal suo letto, durante una notte mite, si era messo ad ascoltare il vento e gli spiriti, svegliato non dalla loro voce (non più, ormai), ma dall’intensità del chiaro di luna. Non riusciva più a scorgere la stella della Tessitrice, separata dal suo amante mortale dalla vastità del Fiume Celeste che si apriva tra loro. Poche ore prima era abbastanza brillante da mostrarsi chiaramente nel riquadro della finestra, nonostante la luna piena. Gli era venuta in mente una poesia che amava quando era più giovane, costruita attorno all’immagine della luna, messaggera dei due amanti attraverso il fiume.

Ripensandoci, quella composizione gli appariva ora artificiosa e forzata. E anzi, a ben guardare, molti dei versi più celebrati dei primi anni di quella Nona Dinastia erano come quelli, pieni di elaborati florilegi verbali. C’era un velo di malinconia nel modo in cui accadeva una cosa del genere, aveva pensato Tai: smettere di amare qualcosa che prima era fondamentale. Poteva forse accadere anche con le persone? E d’altronde, se non si cambiasse almeno un po’, in cosa consisterebbero le diverse fasi di una vita? Non era forse vero che imparare, cambiare, a volte significava abbandonare le proprie convinzioni su una realtà che un tempo era stata percepita come autentica?

La stanza era inondata dal chiaro di luna. Era quasi abbastanza da tirarlo fuori dal letto e spingerlo alla finestra per guardare l’effetto dell’argento sul verde dell’erba alta, ma era troppo stanco. Arrivava sempre stremato alla fine del giorno, e durante la notte non usciva mai dal capanno. Non aveva più paura degli spiriti – si era convinto che ormai lo accoglievano più come un emissario che come un intruso dal mondo dei vivi – e lasciava loro il mondo al calare del sole.

In inverno doveva tenere chiuse le persiane rabberciate e tappare le fessure nei muri meglio che poteva con panni e pelli di pecora, contro vento e neve. La sera il capanno diventava una cappa di fumo, illuminato da fuoco e candele o da una delle sue due lampade quando cercava di imprimere su carta la sua ispirazione. Scaldava il vino su un braciere (anche questo, alla maniera dei Taguran).