La copertina dell'edizione britannica di Under Heaven
La copertina dell'edizione britannica di Under Heaven
Con l’arrivo della primavera poteva aprire le persiane, lasciando entrare la luce del sole, delle stelle e della luna, e il canto degli uccelli al tramonto.

La prima volta che si era svegliato, quella notte, era disorientato e confuso, ancora intrappolato nelle maglie di un ultimo sogno. Aveva avuto l’impressione che fosse ancora inverno, che lo sfolgorio argenteo che vedeva fosse neve o ghiaccio scintillante. Un istante dopo, tornando pienamente cosciente, un sorriso era affiorato sulle sue labbra, divertito. Aveva un amico a Xinan che avrebbe fatto tesoro di un momento come quello. Non capitava spesso di vivere le stesse immagini che erano state declamate in versi famosi.

Accanto al mio letto la luce è così chiara

Sembra quasi un manto di ghiaccio.

Alzo il viso e guardo la luna

Torno a sdraiarmi e penso alla mia casa lontana.

Ma forse si sbagliava. Forse, se una poesia conteneva abbastanza verità, allora presto o tardi qualcuno che ne avesse letto i versi sarebbe giunto a viverne le immagini, proprio come stava facendo lui in quell’istante. O forse alcuni lettori avevano negli occhi quelle forme prima ancora di arrivare alla poesia, e le avrebbero trovate lì ad aspettarli, come una conferma. Il poeta avrebbe offerto loro i versi per un pensiero che già avevano fatto.

E, a volte, capitava che la poesia fosse in grado di suggerire nuove e pericolose idee. Gli uomini potevano essere esiliati o perfino uccisi per quello che scrivevano. Si poteva nascondere un commento rischioso facendo risalire una composizione all’epoca della Prima o della Terza Dinastia, secoli prima. Un tale espediente poteva funzionare, ma non sempre. I mandarini anziani al servizio dell’imperatore non erano certo degli sciocchi.

‘Torno a sdraiarmi e penso alla mia casa lontana.’ La casa accanto al fiume Wai, vicino alla quale era seppellito suo padre, nell’ampio frutteto, assieme ai genitori di lui e ai tre figli che non avevano mai conosciuto l’età adulta. La casa in cui ancora vivevano la madre di Tai e la concubina di Shen Gao, la donna che chiamavano seconda madre, dove anche i suoi due fratelli erano giunti alla fine del lutto formale. Il primogenito sarebbe presto tornato nella capitale.

Non era sicuro di dove fosse sua sorella. Alle donne era concesso un periodo di lutto di diciannove giorni soltanto. Li-Mei era probabilmente tornata al servizio dell’imperatrice, ovunque si trovasse ora. L’imperatrice avrebbe anche potuto non essere a corte. Già due anni prima correva voce che i suoi giorni nel Ta-Ming sarebbero presto terminati. A palazzo, al fianco dell’imperatore Taizu, c’era qualcun altro. Una donna che risplendeva come una gemma preziosa.

Erano in molti a disapprovare la situazione. Nessuno di questi tuttavia, per quel che ne sapeva Tai, si era spinto così oltre da dichiararlo apertamente, almeno non prima del giorno in cui Tai aveva lasciato la città per recarsi a casa dei suoi e poi arrivare lì.

I suoi pensieri tornavano a Xinan, allontanandosi dalla memoria della casa lungo il fiume, dove le foglie di paulonia cadevano tutte insieme lungo il viale del cortile principale, in una sola notte di autunno, anno dopo anno; dove pesche, prugne e albicocche crescevano nel frutteto (inondato di fiori rossi in primavera) e si poteva sentire il profumo del carbone che bruciava al limitare del bosco, vedere il fumo che si alzava dai camini del villaggio, oltre i castagni e i gelsi.

Ora il suo pensiero era rivolto alla capitale: luci, colori e chiasso in cui la vita vibrava folle in tutta la sua polverosa e mondana violenza; vivace, inarrestabile, dirompente perfino in quel momento, nel cuore della notte, assalendo continuamente i sensi. Il centro del mondo, sotto il vasto cielo.

Non sarebbe stato buio, lì. Non a Xinan. Le luci degli uomini avrebbero potuto far impallidire la luna. Ci sarebbero state torce e lanterne, fisse portate in giro sui loro telai di bambù, o sospese a portantine che oscillavano frenetiche attraverso le strade della città, appannaggio di nobili e di potenti. Ci sarebbero state candele rosse alle finestre dei piani alti, e lampade appese ai balconi fioriti del Distretto Nord. Nel palazzo, splendenti luci bianche e ampie lampade a olio innalzate su pilastri alti due volte un uomo avrebbero illuminato i cortili, bruciando per tutta la notte. Ci sarebbero stati musica e gloria, cuori infranti e amanti appagati e, a volte, coltelli o spade sguainati nelle strade e nei vicoli. Al mattino, ancora una volta, potere, passione e morte avrebbero fatto a gara nella bolgia dei due grandi mercati pieni di grida e rumori, tra i banchi dei vinai e nelle sale da studio, nei vicoli tortuosi della capitale (fatti per gli amori furtivi, o per un incontro con la morte) e sue strade incredibilmente ampie. E ancora nelle stanze da letto e nei cortili, nell’elaborato intrico dei giardini privati e nei parchi pubblici pieni di fiori, con i salici piangenti chini sui loro corsi d’acqua e sui loro profondi stagni artificiali.

A Tai era venuto in mente il Parco del Lungo Lago, a sud delle mura in terra battuta della città, e il ricordo della donna con cui era stato lì l’ultima volta, durante la fioritura dei peschi, prima della morte di suo padre, in uno di quei tre giorni del mese in cui le era consentito uscire dal Distretto Nord. L’ottavo giorno, il diciottesimo giorno, il ventottesimo giorno. Era così lontana, ora.

Le anatre selvatiche erano un simbolo di separazione.

Aveva pensato al Ta-Ming, l’intero complesso del palazzo sulla parte settentrionale delle mura cittadine, al Figlio del Cielo, ormai non più giovane, e alla cerchia di coloro che erano con lui e lo circondavano con la loro presenza: eunuchi e nove ranghi di mandarini, di cui faceva parte anche il fratello maggiore di Tai, ma anche principi, alchimisti e comandanti di eserciti. E poi colei che quasi certamente era coricata al suo fianco in quello stesso istante, sotto quella stessa luna. Lei, che

era ancora giovane, di una bellezza quasi insopportabile, che aveva cambiato il volto dell’impero.

Tai aveva aspirato a una posizione di funzionario dell’impero, con libero accesso a palazzo e a corte – per ‘nuotare nella corrente’, come si soleva dire. Aveva studiato per un anno intero nella capitale (tra un incontro con le cortigiane e un’uscita con gli amici a far baldoria), ed era stato sul punto di sostenere l’esame di tre giorni che gli avrebbe garantito l’ingresso nell’élite burocratica dell’impero, la prova che avrebbe determinato il suo futuro.

Ma suo padre si era spento vicino alla tranquilla corrente del fiume, e con la sua morte erano giunti anche i due anni e mezzo di lutto ufficiale, gocciolati via come un vento di pioggia lungo un fiume.

La pena per un uomo che non avesse dovutamente portato a termine il suo ritiro dal mondo e i rituali per la morte dei propri genitori era la fustigazione: venti vergate.

Si sarebbe potuto dire (alcuni l’avevano detto) che Tai aveva di fatto mancato alle sue incombenze rituali trovandosi lì tra le montagne e non nella sua casa, ma aveva parlato con il sottoprefetto prima di intraprendere il suo lungo cammino verso ovest, e ne aveva ricevuto l’assenso. Oltretutto era indubbio che fosse relegato oltre i margini della società anche più del necessario, e sicuramente escluso da qualunque cosa potesse definirsi ambizione o mondanità.

C’era un certo rischio in quel che aveva fatto. Il pericolo era sempre in agguato quando si trattava di quel che poteva essere insinuato nell’orecchio del ministro dei riti, che sovrintendeva ai controlli. Eliminare un rivale, in un modo o nell’altro, era una tattica piuttosto comune, ma Tai pensava di essersi protetto a sufficienza.

Non poteva esserne sicuro, naturalmente. Non a Xinan. Ministri venivano nominati e poi esiliati, generali e governatori militari promossi e poi degradati o sottoposti all’obbligo del suicidio rituale, e la corte aveva subìto repentini e continui cambiamenti nel periodo precedente alla sua partenza. Ma Tai non aveva ancora nessuna carica. Di certo non rischiava niente in termini di impiego o di rango. E pensava di poter sopravvivere alle vergate, se fosse stato necessario.

Aveva cercato di capire, nel suo rifugio illuminato dalla luna, ammantato di solitudine come un baco da seta durante il suo quarto sonno, quanto gli mancasse veramente la capitale. Aveva cercato di capire se fosse pronto a tornare indietro, a riprendere le cose da dove le aveva lasciate. O se era giunto il tempo di un altro cambiamento.

Sapeva bene cosa avrebbe detto la gente se avesse messo in atto quest’ultimo pensiero, quel che già si diceva del secondo figlio del generale Shen. Il primogenito Liu era conosciuto e rispettato: le sue ambizioni e i suoi risultati corrispondevano a un modello assolutamente prevedibile. Il terzo figlio era ancora troppo giovane, poco più di un bambino. Era Tai, il secondogenito, a sollevare le maggiori perplessità tra la gente.

Il lutto sarebbe formalmente terminato con il plenilunio del settimo mese. Avrebbe finito di compiere i riti, a modo suo. Avrebbe potuto riprendere gli studi, prepararsi per la prossima

sessione di esami. Questo facevano gli uomini, a Xinan. Gli studenti sostenevano gli esami cinque, dieci volte e anche di più. Alcuni di loro morivano senza essere mai riusciti a superarli. Delle migliaia che partecipavano alla scrematura preliminare nelle proprie prefetture di origine, ne passavano soltanto da quaranta a sessanta ogni anno. L’esame finale si svolgeva in presenza dell’imperatore in persona, vestito con una tunica bianca, il cappello nero e la cinta gialla riservata alle cerimonie solenni: un elaborato passaggio iniziatico, macchiato da corruzione e minacce, come sempre a Xinan. E come avrebbe potuto essere altrimenti?