Un poster ispirato a Under Heaven realizzato da Martin Springett
Un poster ispirato a Under Heaven realizzato da Martin Springett
Su quei pensieri Tai si era addormentato, con l’improvvisa, ardente speranza che i Taguran si fossero ricordati di portare del vino. Aveva quasi finito quello che la sua gente gli aveva offerto due settimane prima. I lunghi tramonti estivi concedevano a un uomo molto più tempo per bere, prima di andarsi a coricare con il sole.

Tai aveva dormito. E aveva sognato della donna con la mano sul suo cuore in quell’ultima notte, poi sulla sua bocca; aveva sognato le sue lunghe sopracciglia dipinte come farfalle, i suoi occhi verdi, la sua bocca rossa nella luce delle candele; aveva sognato gli spilloni di giada che si sfilavano lentamente, uno dopo l’altro, dai suoi capelli dorati. Aveva sognato il profumo che la vestiva.

Fu risvegliato dal verso degli uccelli, dall’altra parte del lago.

Qualche notte prima si era cimentato in un carme di sei versi, in cui paragonava i loro stridenti bisticci mattutini all’orario in cui venivano aperti i due mercati di Xinan, ma non era riuscito a mantenere stabile la costruzione di quel parallelo nel distico finale. Le sue abilità tecniche come poeta erano molto probabilmente al di sopra della media, sicuramente abbastanza buone da superare la parte di esame sulla composizione poetica ma, per come la vedeva lui, non abbastanza da lasciare un segno nel tempo.

Uno dei risultati di quei due anni di solitudine era stato il rafforzamento di quella convinzione.

Mise su la legna per il fuoco, si lavò e si annodò i capelli mentre aspettava che bollisse l’acqua per il tè. Guardò nello specchio di bronzo che gli era stato regalato e pensò che fosse il caso di radersi il mento e le guance, ma decise di non imporsi un tale supplizio. I Taguran potevano sopportare di vederlo con la barba non rasata. Non c’era nemmeno ragione di legarsi i capelli, in effetti, ma quando li lasciava sciolti sulle spalle si sentiva come un barbaro delle steppe. Se li ricordava bene, i barbari.

Prima di bere o di mangiare, mentre le foglie di tè stingevano nel loro infuso, Tai si mise alla finestra che dava verso est e recitò la preghiera allo spirito di suo padre fissando l’alba.

Ogni volta che la recitava, rievocava e tratteneva nella mente l’immagine di Shen Gao che gettava molliche alle anatre selvatiche nel fiume vicino alla loro casa. Non sapeva perché fosse proprio quella l’immagine che gli tornava alla mente in ricordo di suo padre, ma così era. Forse per via della tranquillità che la pervadeva, in una vita che tranquilla non era stata affatto.

Preparò e bevve il tè, mangiò qualche pezzo di carne sotto sale in una zuppa di acqua calda e farina, insaporita con miele di trifoglio, poi tirò via dal chiodo accanto alla porta il suo cappello di paglia da contadino e si infilò gli stivali. Quegli stivali estivi erano praticamente nuovi – un regalo dai Cancelli di Ferro, per sostituire il vecchio paio di stivali consunti che aveva prima.

Avevano notato quel dettaglio. Tai aveva ormai capito che, quando salivano da lui, i soldati lo osservavano con molta attenzione. Aveva anche capito, durante il primo, gelido inverno, che senza l’aiuto dei due popoli sarebbe certamente morto, lassù. Certo, su alcune montagne e in alcune stagioni era possibile vivere completamente da soli – il sogno leggendario del poeta eremita – ma non a Kuala Nor, non in inverno. Non così in alto e così isolato, quando le nevi ricoprivano il mondo e il vento del Nord soffiava implacabile.

Erano stati i rifornimenti, puntuali e mai venuti meno, nei giorni di luna piena e di luna nuova a tenerlo in vita. Più di una volta erano stati necessari enormi sforzi per farli arrivare fin laggiù, quando le tempeste di neve si abbattevano selvagge sui pascoli ghiacciati e sulle acque del lago.

Munse due capre, portò il secchio dentro e lo coprì per dopo. Impugnò le sue due spade e tornò fuori, per dedicarsi ai suoi esercizi kanlin.

Dopo aver riposto le spade ed essere uscito nuovamente, rimase un momento fermo nel sole quasi estivo, tendendo l’orecchio verso gli acuti richiami degli uccelli, osservandoli mentre volteggiavano e stridevano sopra il lago, blu e bellissimo nella luce del mattino. Non c’era traccia di ghiaccio né dei cadaveri che giacevano riversi attorno alle rive, finché non si abbassava lo sguardo dagli uccelli e dall’acqua alla folta erba del prato; allora si potevano scorgere le ossa, bianche nella luce chiara, dappertutto. Tai vedeva i tumuli che aveva eretto a ovest del capanno, nella zona in cui le stava seppellendo, vicino ai pini a nord. C’erano tre lunghe file di tombe profonde.

Si girò per prendere la pala e cominciare a scavare. Il motivo per cui si trovava lì.

Il suo sguardo fu catturato da uno scintillio a sud: raggi del sole che splendevano sulle armature, a metà strada lungo la curva dell’ultima discesa. Aguzzando la vista, osservò che i Taguran erano in anticipo quel giorno; oppure – controllò di nuovo il sole – era stato lui a muoversi più lentamente del solito, dopo la notte insonne al chiaro di luna.

Li guardò scendere con il bue e il carro pesante. Si chiese se Bytsan avesse deciso di guidare lui stesso il gruppo di rifornimento, quella mattina. Sperò che fosse così.

Tai si chiese se fosse in errore nel desiderare l’arrivo di un uomo i cui soldati avrebbero con gioia violentato sua sorella ed entrambe le sue madri, saccheggiato e bruciato la casa della sua famiglia durante una qualunque eventuale incursione in terra Kitai.

Gli uomini cambiavano in tempo di guerra, a volte diventavano irriconoscibili. Tai l’aveva vissuto sulla propria pelle, nelle steppe oltre le Lunghe Mura, dove vivevano i nomadi. Gli uomini cambiavano, non sempre in modi che faceva piacere riportare alla mente, anche se il coraggio dimostrato in quei momenti era qualcosa che valeva la pena ricordare.

Non pensava che Bytsan potesse diventare crudele, ma non poteva saperlo con certezza. E poteva facilmente immaginarsi il contrario per quanto riguardava alcuni dei Taguran che erano venuti lì in quei due anni, armati e in assetto da battaglia, come in risposta al severo richiamo dei tamburi da guerra invece che per portare rifornimenti a un folle solitario.

Gli incontri di Tai con i guerrieri dell’impero degli altipiani non erano semplici, né privi di intoppi.

Scorse Bytsan nel momento in cui i Taguran raggiunsero il pascolo e iniziarono a costeggiare il lago. Il capitano si staccò al trotto dal proprio reggimento, in groppa al suo sardiano baio. L’animale era magnifico, da togliere il fiato. Erano tutti così, i cavalli provenienti dal lontano Occidente. Il capitano montava l’unico esemplare di tutta la sua compagnia. Cavalli Celesti, li chiamavano nella terra di Tai. Le leggende narravano che sudassero sangue.

I Taguran li scambiavano con Sardia, oltre il punto in cui le due vie della seta si riunivano a ovest, dopo i deserti. Laggiù, dopo molti aspri passi montani, si stendevano le profonde, rigogliose terre in cui venivano allevati quei cavalli, e la gente di Tai li desiderava con una passione talmente ardente da aver influenzato la politica dell’impero, le sue guerre e i suoi poeti per secoli e secoli.

I cavalli erano qualcosa di molto importante. Erano il motivo per cui l’imperatore, Sereno Signore delle Cinque Direzioni e delle Cinque Montagne Sacre, era continuamente impegnato in trattative con i nomadi Bogü, concedendo il suo sostegno ad alcuni capi scelti tra quegli abitanti delle yurte, bevitori di kumiss, a nord delle Mura, in cambio delle loro cavalcature, per quanto inferiori a quelle di Sardia. Né le terre cariche di loess del Kitai settentrionale, né le giungle e le risaie del sud permettevano infatti il pascolo e l’allevamento di cavalli di qualità.

Era una tragedia per i Kitan; lo era stato per un migliaio di anni.

Molte merci erano giunte a Xinan lungo le vie della seta durante questa Nona Dinastia, rendendola ricca oltre ogni descrizione, ma non i cavalli di Sardia. Non erano in grado di sopportare quel lungo viaggio attraverso il deserto. Le donne giungevano a est, i musiciste e i danzatrici. E così giungevano giada, alabastro e gemme; ambra, erbe e polvere di corno di rinoceronte per gli alchimisti. Uccelli parlanti, spezie e cibi esotici, spade, avorio e molto altro ancora, ma non i Cavalli Celesti.

Per questo motivo, il Kitai aveva dovuto trovare altri modi di procurarsi le migliori cavalcature possibili, perché la cavalleria poteva fare la differenza in una guerra, quando le forze si equivalevano; e quando i Taguran avevano un numero troppo elevato di quei cavalli (ora erano in pace con i Sardiani, e commerciavano con loro) le forze non si equivalevano affatto.

Mentre Bytsan tirava le redini del suo destriero, Tai si inchinò due volte in segno di saluto, con il pugno destro chiuso nel palmo sinistro. Conosceva persone – tra cui suo fratello maggiore – che nel vederlo inchinarsi in maniera così formale a un Taguran avrebbero giudicato quel gesto una vera e propria umiliazione. D’altra parte, quelle persone non avevano avuto salva la vita grazie a quest’uomo e al regolare rifornimento che aveva garantito a ogni luna piena da quasi due anni.

I tatuaggi blu di Bytsan risaltavano nella luce del mattino, su entrambe le guance e sul lato sinistro del collo, sopra il bavero della sua tunica. Smontò da cavallo e si inchinò, anche lui

due volte, con il pugno chiuso contro il palmo dell’altra mano, adottando l’usanza Kitan.