Guy Gavriel Kay
Guy Gavriel Kay
Sorrise brevemente. «Prima che tu me lo chieda: sì, ho portato del vino.»

Parlava Kitan, come molti altri Taguran. Era la lingua del commercio dappertutto, ora che gli uomini non erano più impegnati a uccidersi a vicenda. Si credeva, nel Kitai, che gli dèi dei nove cieli parlassero Kitan, e che l’avessero insegnato al primo Padre degli Imperatori, chino e riverente di fronte a loro sulla Montagna del Drago, nel passato-prima-del-tempo.

«Sapevi che te l’avrei chiesto?» Tai si sentì in imbarazzo, un poco allo scoperto.

«Tramonti più lunghi. Cos’altro può fare un uomo? Il calice è un buon compagno, dicono le nostre canzoni. Va tutto bene?»

«Va tutto bene. Il chiaro di luna mi ha tenuto sveglio, e stamattina sono più lento del solito.»

La domanda di Bytsan non era stata oziosa. Conoscevano bene la sua routine.

«Soltanto la luna?»

Anche la gente di Tai gli chiedeva la stessa cosa, con diverse varianti, ogni volta che veniva da lui. Curiosità, e paura. Uomini molto coraggiosi, come quello che aveva di fronte, gli avevano detto senza mezzi termini che non sarebbero mai stati capaci di intraprendere quel che lui stava facendo lì, tra i morti senza sepoltura e in collera.

Tai fece cenno di sì con la testa. «La luna. E qualche ricordo.»

Diede un’occhiata oltre il capitano e vide che un giovane soldato in armatura completa stava salendo verso di loro. Non era uno di quelli che conosceva. L’uomo non smontò da cavallo, e rimase a squadrare Tai dall’alto in basso. Aveva un solo tatuaggio, indossava inutilmente un elmo, e non sorrideva.

«Gnam, prendi un’ascia dal capanno e aiuta Adar a spaccare della legna.»

«Perché?»

Tai sbatté le palpebre. Guardò il capitano Taguran.

L’espressione sul volto di Bytsan non era cambiata e, senza nemmeno degnare di uno sguardo il soldato a cavallo alle sue spalle, rispose: «Perché è quello che siamo venuti a fare qui. E perché se non obbedirai ti farò togliere cavallo, armi e stivali, e ti lascerò tornare a piedi da solo fino al forte, in compagnia dei gatti di montagna.»

Lo disse con calma. Ci fu silenzio. Tai si rese conto, con un certo sgomento, di quanto fosse disabituato a questo genere disituazioni, agli improvvisi aumenti di tensione. È così che è fatto

il mondo, si disse. Imparalo di nuovo, a cominciare da adesso. Perché è questo ciò che troverai al tuo ritorno.

Facendo finta di niente, in modo da non offendere il capitano o il giovane soldato, Tai si girò a guardare oltre il lago, verso gli uccelli. Aironi grigi, sterne. Un’aquila dorata, alta nel cielo.

Il giovane, di corporatura massiccia e ben formata, era ancora a cavallo. Disse: «Costui non è capace di spaccare la legna?»

«Credo proprio che sia in grado di farlo, dato che ha scavato tombe per i nostri morti per due lunghi anni.»

«I nostri, o i suoi? E magari saccheggia i resti dei nostri soldati?»

Bytsan scoppiò a ridere.

Tai si girò di scatto, non riuscì a trattenersi. Sentì qualcosa crescergli dentro, dopo tanto tempo. La riconobbe: la rabbia era stata parte di lui, ed era anche troppo veloce ad avvampare, per quel che si ricordava. Era il destino di un secondogenito? Alcuni avrebbero detto così.

Cercando di rimanere impassibile, disse: «Ti sarei grato se volessi dare un’occhiata in giro e mi indicassi quali di queste ossa sono dei tuoi, nel caso in cui dovessi sentirmi incline a depredarne

i resti.»

Il silenzio ora era differente. Esistevano molti tipi di silenzio, pensò Tai, banalmente.

«Gnam, sei soltanto uno sciocco. Prendi quell’ascia e vai a spaccare la legna. Immediatamente.»

Stavolta Bytsan guardò il suo uomo, e stavolta il soldato smontò da cavallo; senza fretta, ma obbediente. Intanto, il bue aveva portato il carro a destinazione. C’erano altri quattro uomini. Tai ne conosceva tre, che salutò con un cenno col capo.

Quello chiamato Adar, vestito con una tunica rosso scuro stretta in vita da una cintura e con un paio di ampi pantaloni marroni, senza armatura, si diresse verso il capanno assieme a Gnam, conducendo i cavalli a mano. Gli altri, che già conoscevano i loro compiti, sistemarono il carro davanti all’ingresso e cominciarono a scaricare i rifornimenti all’interno del capanno. Si muovevano svelti, come al solito. Scaricare, impilare le provviste e fare tutto il necessario, anche pulire il tavolino, per poi risalire la china e allontanarsi.

Avevano paura di rimanere in quel luogo al calar della notte.

«Attenti con quel vino!» li ammonì Bytsan. «Non vogliosentire un Kitan che piange. È un rumore troppo fastidioso!»

Tai fece un sorriso forzato, mentre i soldati scoppiavano a ridere.