Rimase per un bel po’ sulla linea mediana, proprio al centro, con metà corpo flagellato dalla pioggia e l’altra metà che si bruciava al sole, lentamente perché era abbronzato come tutti, ma comunque alla fine vide che la pelle si stava coprendo di vesciche, minute e delicate come le bollicine schiumose dell’acqua sulle rocce. Nemmeno quello gli faceva male. Gli venne in mente che Tasan non aveva soffiato sulla ciotola, prima di bere il brodo, come se il rischio di scottarsi non lo sfiorasse nemmeno, come se non ci avesse neppure pensato.

Il vecchio si spostò dalla parte del sole e si avviò alla duna del formicaleone. Se avesse aspettato ancora, non avrebbe più sentito niente di niente, e voleva almeno rendersi conto del momento in cui sarebbe finito tutto.

Aveva fatto pochi passi che sotto i piedi avvertì un rombo, come una vibrazione sorda, che fece tremare la sabbia, cambiando la forma delle spire ammucchiate dal vento. Fu una scossa breve, rapidissima, come l’incresparsi della pelle di un animale quando ci si posa su un insetto.

Per un attimo il vecchio ebbe l’impressione che un essere gigantesco, qualcosa di inimmaginabile, avesse percorso il sottosuolo, scuotendolo al suo passaggio.

Finì subito.

Altre maledizioni. Il mondo esalava il suo ultimo respiro, forse era stato proprio quello.  

Il vecchio si portò sul margine della duna e guardò in giù. Occorreva essere molto precisi, un salto deciso, per arrivare dritti sulle fauci e far finire la cosa immediatamente, o avrebbe finito per urlare, anche se la sua carne ormai non gli apparteneva quasi più. Il formicaleone non badava troppo a quale parte iniziava a mangiare per prima, bastava mangiare, perciò doveva essere la testa. Era vecchio, ma riteneva di essere ancora in grado di precipitare di testa.

Rimase a lungo a guardare ciò che c’era in fondo alla duna, perplesso.

Le zampe del formicaleone si muovevano ancora debolmente, e non si fermarono nello stesso istante, ma una dopo l’altra, come dita che salutano. Le fauci si aprivano e si chiudevano a scatti, schiumando nastri di saliva sulla sabbia, scurendola pochi attimi soltanto, prima che il sole la facesse evaporare. La sabbia gli franava lentamente addosso, lo stava già ricoprendo di nuovo.

Mentre il vecchio lo guardava, il formicaleone fu percorso da uno spasimo, dopodichè si irrigidì definitivamente. 

Il vecchio si tirò indietro. Non valeva la pena precipitare nella duna per sincerarsi che fosse morto, dopo non sarebbe riuscito a salire e il sole l’avrebbe fatto urlare, altroché, non c’era insensibilità che potesse giocarsela con la maledizione del sole, prima che l’ultimo spasimo attraversasse anche lui.

Bel momento aveva scelto per morire, quella bestiaccia. Tutto sembrava cospirare.

Con le rane sarebbe stato un po’ più difficile, perché erano piccole, tante finchè vuoi, ma è difficile morire sul colpo, quando fai un balletto trafitto da mille morsi acuminati come spilli. Forse doveva sdraiarsi. Gli parve la soluzione ottimale.

- Non urlerò – si disse, avviandosi dalla parte della pioggia – non mi faranno male. Dovrebbe finire tutto presto, se mi mettò giù e mi prendono il collo.

La pioggia lo inzuppò fino alle ossa, subito, da capo a piedi, gelandogli le vesciche sulla pelle e riempiendogli il petto di umidità. Le sue figlie avevano gridato come se avessero la bocca impastata, ma il vecchio sapeva che era perché l’acqua era entrata dentro,  fin nei polmoni, e questo toglieva il fiato. In fondo, morire dalla parte della pioggia era meglio, forse.

Le rane galleggiavano tra i sassi, le pance verdognole rigonfie, le zampe carnose che sparavano nelle quattro direzioni, con gli artigli a lucidarsi di pioggia. 

Qualche girino saltellava ancora qua e là, ma non erano i soliti balzelli famelici, erano contorsioni disperate, una fuga impossibile, da qualcosa da cui non potevano scappare, perché l’acqua era dappertutto e loro continuavano a caderci dentro. Mentre il vecchio guardava, un girino si scontrò con la sua gamba... e non lo azzannò. Sparì nella schiuma, senza comparire più.

Il vecchio cadde in ginocchio nel fango, il viso flagellato dai pugnali freddi, che però sembravano diversi, più piccoli, meno feroci, come fossero esausti... esauriti. 

I pipistrelli, pensò debolmente. Mi rimangono i pipistrelli, stanotte. 

Ma in cuor suo sapeva che, in quel preciso momento, frotte di pipistrelli cadevano a terra, stridevano con le zanne snudate, le ali che rigavano il suolo arido, per irrigidirsi uno dopo l’altro. 

Gli insetti precipitavano dal cielo, la gente doveva essersi già chiusa nelle case, spaventata dal fenomeno strano, inspiegabile, i malati smettevano di urlare e si guardavano attorno, allibiti per l’improvviso mutamento nelle loro condizioni d’agonia. Forse sarebbero morti lo stesso, almeno quelli a stadio avanzato, forse no, ma le ossa avevano smesso di marcire, l’aria di avvelenare. Sarebbero morti addormentandosi.