In occasione del primo anniversario dalla scomparsa di Ray Bradbury, il 5 giugno 2012, Mondadori pubblica il volume Cento racconti. Autoantologia 1943-1980, la più ampia raccolta mai apparsa in Italia: come si affronta la traduzione di materiale già tradotto o mai tradotto in passato?

Allo stesso modo in cui si affronta tutto il resto: ricominciando da zero. Se il racconto era stato tradotto in modo memorabile e alcune frasi ci sono rimaste nella mente potremo citarle, ma tutto qui. L’importante, infatti, è non farsi sviare dal testo che si ha di fronte: né quello straniero né l’eventuale predecessore italiano. Dobbiamo arrivare a un giro di frase nostro, nuovo, che faccia un buon effetto in lingua scritta.

Lei si è occupato di altre opere di Bradbury. Quali tematiche ha incontrato lavorando su questa in particolare? Ne è scaturita una visione diversa dell’autore?

Non direi che ne sia scaturita una visione diversa. Semmai ho trovato una conferma dell’ipotesi che i primi racconti abbiano una maggior efficacia drammatica rispetto ai più recenti, e soprattutto una maggior efficacia stilistica. Il Bradbury degli esordi può essere lirico e carico di pathos ma non è mai ridondante, le trovate narrative sono secche e precise. Ho apprezzato particolarmente i suoi racconti psicologici e psico-patologici: ritratti di individui soli o disperati che tuttavia, alla fine, scoprono finalmente chi sono (“C’è chi vive come Lazzaro”, il bellissimo “Caleidoscopio”, ecc.). Questi apologhi sono tra le cose migliori del Bradbury prima maniera e rientrano in un filone di letteratura nera e nero-fantastica molto in voga allora, di cui forse si sente la mancanza. Gli altri temi sono quelli che ben conosciamo: la giovinezza, i ricordi, la loro proiezione al futuro. C’è poi il timore di perdere la libertà, preludio a quello della morte.

Quali sono state le maggiori difficoltà durante la traduzione e quale la soddisfazione maggiore a lavoro finito?

Le difficoltà si trovano, in Bradbury, a livello stilistico: a lui piace tanto la metafora che ne fa un uso continuo e intensivo, sfociando a volte nell’accanimento. La frase ti sembrava già bell’e finita, già poetica abbastanza, ma no, lui sfodera altri sei paragoni (con relativi aggettivi) che nella nostra lingua suonano inevitabilmente troppo lunghi. In questi casi bisogna scegliere ogni volta, rifacendo la costruzione in modo che ne risulti una prosa efficace anche in italiano, lingua che ha una struttura più tornita rispetto all’inglese. E che, proprio per questo, deve risultare incisiva con un minor numero di parole, soprattutto di aggettivi qualificativi. A lavoro finito, la soddisfazione maggiore è quella di rileggere e migliorare il proprio testo: è molto raro che una traduzione venga bene in prima stesura, anzi io direi che al settanta per cento nasca in revisione. Una ripetuta revisione.

In generale: perché, oggi, ritradurre (e leggere) Ray Bradbury?

Una risposta potrebbe essere che è un autore diventato a suo modo classico, quindi con molte cose da dire ad ogni generazione. Può essere interessante, e in qualche modo divertente, studiare il suo rapporto con l’immaginazione, che è il punto centrale della narrativa di Bradbury ed è una facoltà molto allenata nei giovani. Direi che sia un autore giovane, pur essendo morto a novant’anni, per questo il pubblico dei teen-ager o dei ventenni lo scopre sempre volentieri.

Approfittiamo dell’occasione e della sua disponibilità per rivolgerle qualche domanda sull’autore. Ray Bradbury ha fatto sognare tre generazioni di lettori: cosa hanno significato le sue opere nell’ambito della letteratura fantastica?

Alla science fiction ha insegnato a sognare letterariamente, psicanaliticamente, non solo fra storte e alambicchi. Guardati nello specchio scuro, uomo spaziale americano, scopri i segreti della tua anima anche quando è nera, anche quando è sola e abbandonata! Dieci anni prima di J.G.Ballard, lo “spazio interno” l’ha inventato Bradbury, senza vergognarsi di andare a cercarlo in quello esterno e sui pianeti. Alla narrativa USA ha dato un’iniezione di anti-hemingwaysmo che molti aspettavano. La narrativa fantastica aveva esigenze proprie: Bradbury e altri come lui hanno resuscitato il romance, il genere in cui la fantasia è l’elemento preponderante. E al tempo stesso, è riuscito nell’impresa non facile di calarla nel mondo contemporaneo, immergerla nella realtà del XX secolo.

Bradbury ha dichiarato di aver scritto un solo romanzo di fantascienza, Fahrenheit 451, e che il resto è fantasy. Cosa pensa di questa affermazione?

Penso che abbia ragione, anche se i lettori della mia generazione consideravano le Cronache marziane sf. Pur rispettando chi la pensa diversamente, a me sembra che l’80% della fantascienza sia fantasy nella sostanza. Il motivo è che il fantastico non dipende, come si crede di solito, da quello che avviene o non avviene in un racconto, dal fatto che si tratti di scienza oppure di magia: dipende molto di più dal come si guardano le cose, dal punto di vista di chi legge o di chi scrive. Se io ritengo che un villaggio marziano identico alla mia cittadina terrestre sia fantasy, sono del tutto giustificato a pensarlo, ma se preferisco dirmi che si trattava soltanto di una proiezione mentale, e quindi di sf, sono ugualmente il benvenuto. Dal punto di vista psicologico tra le due cose non c’è una differenza sostanziale, anche se poi, a livello razionale, si possono fare dei distinguo. Nelle nostre letture, nei film che vediamo, nei pensieri che ci attraversano la testa e, in generale, nelle vite che viviamo, tutto è fantastico perché tutto è soggettivo, intimamente legato alla percezione. Nel mondo interiore, fantasia e scienza sono due facce della stessa facoltà umana, quella di concepire l’inconcepibile.

Gli universi distopici di Bradbury, dal postapocalittico ai regimi orwelliani, nonché il rapporto conflittuale con la tecnologia, rispecchiano paure del passato o angosce ancora presenti nella società attuale?

Rispecchiano molte angosce degli anni Quaranta e Cinquanta, un’epoca in cui tutti leggevano Huxley e Orwell e lo spettro di quelle profezie pareva essersi incarnato nella Seconda guerra mondiale o nel pericolo delle dittature. La società attuale, pur molto diversa, non se ne è liberata perché è ancora basata su una tecnologia onnipervasiva (e che, dunque, può essere usata per il controllo dei cittadini) e sull’accumulo di arsenali spaventosi, capaci di distruggere la terra non una ma decine di volte. Detto questo, non bisogna dimenticare che in Bradbury l’angoscia fondamentale è interiore e la dittatura che brucia i libri è anche un’immagine della fragilità della vita e della bellezza, rispecchiata nel tracollo di una civiltà.

“Bradbury era un uomo che amava il futuro”. Secondo lei, l’autore riteneva realizzabile un possibile futuro da amare al di là dell’ottica “non saremo a lungo terrestri”?

Credo di sì, Bradbury è soprattutto un autore della terra. Anche quando parla di Marte o Venere è saldamente radicato nel suolo, addirittura nelle radici del pianeta. Marte è un po’ anche il suo Illinois, più raramente la sua California; Venere potrebbe essere uno stato dell’est dove piove sempre o un esotico paesaggio tropicale. In realtà Bradbury ama il futuro ma anche il passato, e soprattutto il concetto di tempo. Il suo dono è quello di far sembrare caldo e desiderabile il lungo corridoio del tempo, di infondere vita nelle cose che non l’avrebbero avuta, di riempire ciò che sarebbe rimasto vuoto e astratto, se lui non l’avesse toccato.

Una delle tante frasi famose di Bradbury è: “Non c’è bisogno di bruciare i libri per distruggere una cultura. Basta impedire che la gente li legga”. Quanto è attuale questo concetto nel nostro paese?

Verrebbe da dire molto, ma poi vedi in giro un sacco di pubblicazioni, pile di libri, tonnellate di riviste. Il problema non è solo che la gente, da noi, non legge: è che persino chi legge si accontenta spesso di quello che capita, scegliendo poco e male. Certo, esiste una maggioranza di persone cui la lettura non interessa affatto, e che al rapporto con un buon libro preferisce quello con una bella partita di calcio o con lo zapping fra i canali, ma nell’immediato può essere un’esperienza vitale anche quella. Le ragioni per cui facciamo una scelta piuttosto che un’altra sono psicologiche e ambientali, hanno radici nell’istruzione o in abitudini di vita che sarebbe arduo riformare. Personalmente, non vedo molta differenza tra chi guarda la televisione e chi legge senza consapevolezza di quello che sceglie, baloccandosi con cose che non gli appartengono veramente. Sono questi gli influenzabili, ancor più degli analfabeti.

Per concludere, una domanda per i neofiti: quale approccio è consigliato a un giovane lettore? I romanzi o questa serie di racconti?

I racconti si mandano giù facilmente, anche se poi uno tira via l’altro, quindi a un giovane consiglierei di primo acchito la narrativa breve. Avvertendo, comunque, che anche le Cronache marziane sono una raccolta di short stories e che Fahrenheit 451 è un romanzo così intenso e così breve che si può leggere in un giorno.