J.R.R. Tolkien
J.R.R. Tolkien

È logico che romanzi del genere possano essere solo comete, con un’esistenza della durata di una stagione, che non lasciano il segno. Segno inteso in senso positivo, perché in senso negativo invece c’è stato: a causa di essi il mercato è stato bruciato.

Com’è stato possibile tutto questo? E com’è invece che ci sono stati autori le cui opere sono rimaste e continuano a essere lette anche dopo la loro morte?

Si prenda uno degli esempi più famosi: J.R.R.Tolkien.

Lo scrittore inglese si è sempre lamentato e rammaricato che il suo paese non avesse una gran tradizione mitologica, al punto che ha voluto crearne una con la realizzazione del mondo in cui si svolge il suo romanzo più famoso, Il Signore degli Anelli. È partito dal principio, dalla creazione del mondo, dalla sua geografia, dandogli una storia millenaria, arrivando addirittura a creare le lingue delle varie razze. La sua professione certo l'ha aiutato (insegnante di lingua e letteratura anglosassone e inglese), ma si è dato da fare per ricercare e documentarsi delle favole e dei miti che possedevano altri paesi, una passione ereditata dalla madre.

Quello che ha conferito così tanta forza alla sua opera è stato il modo in cui è riuscito a riportare e far rivivere le sue esperienze di vita. L'amore per la moglie mostrato attraverso Beren e Luthien. Gli orrori delle battaglie, la perdita di compagni che tanto l'avevano segnato avendo partecipato alla Prima Guerra Mondiale. La consapevolezza di quanto la tecnologia e l'industrializzazione potessero essere dannose per la natura, come la distruggessero.

Tutte cose che la maturità raggiunta in una vita gli ha permesso di elaborarle e metabolizzarle e immetterle in un libro, facendole divenire così universali, comprensibili e vicine a chiunque.

Tutto ciò invece manca in molti dei libri prodotti dall'editoria italiana: si è di fronte a mancanza di conoscenza e mancanza di esperienza di vita. Di nuovo, si dà quello che si ha: in questo, parecchi degli autori italiani sono mancanti e il risultato si vede.

Tale esempio porta a galla altri fattori (già accennati) che rendono autori ed editori deficitari: la mancanza di conoscenza del genere fantasy e di cultura in generale. Si possiede una concezione di questi due elementi molto limitata, al punto che non li si ritengono necessari al fine di realizzare un buon libro che possa vendere: per gli addetti ai lavori il fantasy è un semplice prodotto commerciale da cui trarre guadagno, per cui non è necessario fare nulla per approfondirlo, per capire che cosa è realmente.

Un problema che è il problema della cultura italiana, che è legata a determinati stereotipi e non accetta il fantasy come cultura, come elevazione. Si tratta, al massimo, di narrativa per bambini e per ragazzi, da cui la mancanza di una necessità di trame complesse, editing adatto a parametri più adulti e maturi.

È vero che l’editoria non esiste solo per far cultura, ma per vendere ed è per tale motivo che sceglie la strada che le permette di avere guadagno, dando al pubblico ciò che vuole: è qui che salta fuori la responsabilità che ha una buona fetta di lettori e che influisce sulle scelte editoriali e sul modo di scrivere degli autori, perché si punta su storie semplici da afferrare, senza concetti complessi o con sceneggiature ardite, perché altrimenti si teme di non essere capiti e seguiti (e pertanto non vendere).

Il problema ha radici profonde e viene dalle basi culturali. Rispetto ad altre nazioni, l'Italia ha un basso livello culturale, si legge poco (limitandosi purtroppo spesso solo a sms e commenti Facebook) e la maggior parte delle persone oltretutto ha una scarsa conoscenza della propria lingua: una minoranza la possiede, ma non certo non per via del titolo di studio conseguito, quanto per una conoscenza dovuta a interessi, approfondimenti personali. Laureato=acculturato non è una equazione e scontata, ma spesso quando nelle copertine gli editori parlano dell’autore, il titolo di studio è una delle prime cose che si sottolineano, come se questo fosse garanzia di qualità del prodotto e gli conferisse ricchezza di contenuti.

Ma la cultura non dipende dal titolo di studio. L'avere cultura dipende dalla volontà di un individuo, dalla sua voglia di conoscere, di ampliare il suo sapere. Da quello che si vede in giro, l'italiano medio ha una buona dose di pigrizia mentale che lo spinge ad accontentarsi di poco. E in una civiltà dove si hanno molti mezzi per aumentare la propria cultura, il rimanere ignoranti è una pecca che non ha giustificazioni, specie per chi vuole intraprendere certi percorsi, quale appunto quello della scrittura. Invece succede che con i mezzi a disposizione, non si hanno neppure le basi per saper scrivere grammaticalmente corretto: persino chi dovrebbe saper scrivere, come i giornalisti, dimostra parecchie mancanze nella padronanza della scrittura. Il risultato è che si ha una forte percentuale di analfabetismo di ritorno, con gente che si serve del saper leggere in contesti molto limitati (la compilazione di qualche modulo, conti di bilancio), ma non arriva a capire (o sforzarsi di capire) un testo con qualche complessità.