In quel ramo di cinematografia che volge a mostrare il lato sporco dell’America, quella della malavita e delle lobby che puntano alla supremazia per il traffico di droga, alcol e tutto il malaffare possibile, la storia di Up all night di Jaume Collet-Serra non farebbe troppa differenza: ci sono i cattivi spietati, i cattivi con un cuore, i cattivi in cerca di redenzione. Poi ci sono i “buoni”, o i presunti tali, perché tra chi dovrebbe contrastare la malavita ci sono i corrotti, coloro che diventano infiltrati e combattono la verità. Poi ci sono altri ancora che si trovano nel posto sbagliato al momento sbagliato, o sono convinti di essere nati nel posto sbagliato e dal padre sbagliato, e fanno di tutto per vivere aiutando le nuove generazioni a non cedere alla tentazione del male. 

Se il canovaccio, piuttosto semplice, funziona, di certo è il sodalizio Jaume Collet-Serra e Brad Ingelsby (sceneggiatore) a fare la differenza, grazie alla straordinaria interpretazione della coppia cinematografica Liam Neeson (Jimmy Conlon) – Ed Harris (Shawn Maguire), come anche Joel Kinnaman (Mike Conlon) - Boyd  Holbrook (Danny Maguire) e un cast di altissimo livello (Common, Nick Nolte, Vincent D’Onofrio). Il confronto generazionale è profondo ed evidente, nel rifiuto o nel seguire in modo quasi incosciente le orme dei padri. Laddove Mike rifiuta drasticamente la condotta di vita del padre, lo chiama per nome e non “papà”,  escludendolo il più possibile dalla propria quotidianità e dalla famiglia che con tanta cura ha creato, di riflesso Danny si crogiola nella condizione di figlio del boss a cui tutto è dovuto, non ha troppi scrupoli ed è avido di potere, vuole dimostrare di essere al pari del padre e il suo degno erede, al punto di contravvenire alle regole, al codice d’onore della malavita.

Shawn (Harris) lo sa, ma l’umanità di un genitore che perde il figlio, in una fatidica telefonata con Jimmy, azzera ogni regola, ogni accordo, ogni sete di potere, lasciando il posto solo al bisogno di vendicare la morte, di pareggiare i conti. Niente conta di più, e in questo squarcio di umanità Serra riesce a suggerire sia le valutazioni personali per lo spettatore che le riflessioni introspettive dei protagonisti, oltre a riuscire a delineare con poco ciascun personaggio.

In fondo, cercando di sorvolare sulle etichette, uno degli aspetti più interessanti di questo film - che di fantastico ha niente, se non l’essere un ottimo film di genere, un film riuscito nonostante la prevedibilità sopra considerata, un vero film d’azione come pochi se ne sono visti negli ultimi anni - c’è l’uomo in tutte le infinite sfaccettature senza le quali non resterebbero che beceri istinti. Ci sono dei padri che a metà della propria vita sono portati a interrogarsi su quanto le proprie scelte li abbiano resi uomini, liberi, e se veramente avere il controllo degli altri non renda loro stessi dei controllati. Centonove minuti che scorrono rapidamente in una bilanciata commistione di pathos, altissima tensione, realismo, umanità e bestialità, attraverso un armonico ritmo di dialoghi (un ottimo doppiaggio), silenzi, inseguimenti, colpi d’arma, suoni e rumori, primi piani e spettacolari voli d’uccello e inquadramenti come se fossimo catapultati nella cabina di una stazione di polizia. È come se, per l’appunto, lo spettatore si trovasse sbattuto lì, tra l’odore di scotch, sigari, fuochi appiccati, metallo e città corrotta, sentendo su di sé il desiderio di Mike di tirarsi fuori da qualcosa che ha rifiutato per tutta la vita, ritrovandosi al posto sbagliato nel momento sbagliato, e dove tutto cambierà, perché di una resa dei conti, in effetti, si tratta. Una resa dei conti in cui vince solo chi resta saldo. Vince. Vivere è un altro discorso, un’altra storia.