Prima Parte

Schiavo

C’è un fiore che cresce su marte. È rosso, aspro e adatto al nostro suolo. si chiama haemanthus. significa “fiore di sangue”.

1

Subinfero

La prima cosa che dovete sapere su di me è che sono il degno figlio di mio padre. E quando lo vennero a prendere, feci come aveva chiesto. non piansi. non quando la società trasmise l’arresto in televisione. non quando gli oro lo processarono. non quando i Grigi lo impiccarono. mia madre mi picchiò per questo. spettava a mio fratello Kieran, essere quello stoico. Lui era il maggiore, io il minore. Ero io quello che doveva piangere. invece Kieran strillò come una femminuccia quando la Piccola Eo infilò un haemanthus nello stivale da lavoro sinistro di mio padre, per poi tornare di corsa da suo padre. Accanto a me, mia sorella Leanna sussurrò un lamento. io guardai soltanto e pensai che fosse un peccato, che stesse morendo ballando ma senza le sue scarpe da ballo.

Su marte non c’è molta gravità. Perciò devi tirare i piedi se vuoi spezzare il collo. Lo lasciano fare ai familiari.

Fiuto il mio stesso fetore dentro la fiamma-tuta. È fatta di qualche specie di nanoplastica ed è bollente come suggerisce il nome. mi isola dalla testa alla punta dei piedi. niente entra. niente esce. Specialmente non il calore. La cosa peggiore è che non puoi detergerti il sudore che cola negli occhi. Mi strapizzica mentre corre giù dalla fascia in testa e si raccoglie in pozzanghere ai talloni. Per non parlare della puzza quando ti capita di pisciare. Cosa che capita sempre. Devi buttar giù un sacco d’acqua dal sondino. immagino che con un catetere saresti a posto. noi abbiamo scelto la puzza. 

I perforatori del mio clan si scambiano qualche pettegolezzo nell’auricolare al mio orecchio mentre piloto in cima alla scava-Chela. sono solo in questa profonda galleria, su una macchina costruita come fosse una mano metallica di proporzioni titaniche, che afferra e morde il terreno. Controllo le dita che fondono la pietra dalla postazione sul sellino in cima alla trivella, proprio dove sarebbe l’articolazione del gomito.

Qui, le mie dita indossano guanti di controllo che azionano i numerosi trapani tentacolari, a circa novanta metri sotto il trespolo. Si dice che per essere un subinfero le tuedita debbano guizzare come lingue di fuoco. Le mie sono ancora più veloci.

Nonostante le voci nell’orecchio, sono solo nelle profondità della galleria. La mia esistenza è vibrazione, l’eco del mio stesso respiro, e un calore così denso e tossico che sembra di sguazzare in una coperta imbottita di piscio caldo.

Un nuovo rivolo di sudore passa dalla banda scarlatta, stretta sulla tempia, e mi cola sugli occhi, bruciandoli finché diventano rossi come i miei capelli color ruggine. una volta cercavo di arrivarci con la mano e toglierlo, finendo solo col grattare inutilmente la visiera della mia fiamma-tuta. Mi viene ancora voglia. Persino dopo tre anni, il prurito e il pungolo del sudore sono strazio allo stato puro.

Le pareti della galleria intorno alla mia postazione risplendono di un giallo sulfureo, illuminate da una corona di luci. i raggi sbiadiscono man mano che alzo lo sguardo lungo il sottile pozzo verticale che ho scavato quest’oggi. Più in alto, il prezioso helium-3 luccica come argento liquido, ma è nelle ombre che scruto, per vedere le vipere delle fosse, che si avvolgono in spire nell’oscurità, cercando il calore della mia trivella. Si farebbero un varco anche dentro la  tuta, mordendo l’involucro per poi cercare di rintanarsi nel posto più caldo che trovano, che di solito è il tuo stomaco, per deporci le uova. mi hanno già morso. sogno ancora quella bestia – nera, come uno spesso viticcio di petrolio. Possono essere larghe come una coscia e lunghe come tre uomini, ma è dei cuccioli che abbiamo paura. non sanno come dosare il veleno. Come me, le loro antenate sono venute dalla Terra, e poi Marte e le gallerie sotterranee le hanno cambiate.

C’è un’atmosfera sinistra nei tunnel. solitaria. Al di là del ruggito della trivella, sento le voci dei miei amici, tutti più 

anziani. ma io non posso vederli, mezzo chilometro sopra di me, nell’oscurità. Loro stanno scavando parecchio più in alto, vicino all’imbocco del tunnel che ho scolpito, scendendo muniti di uncini e funi con cui appendersi alle pareti della galleria per trovare piccole vene di helium-3. scavano con trivelle lunghe un metro, fagocitando gliscarti. Anche quel lavoro richiede una folle destrezza di mani e piedi, ma sono io a portare il pane a casa per la squadra. Sono il subinfero. Ciò richiede un certotipo d’uomo – e io sono il più giovane che si ricordi.

Sto in miniera da tre anni. Si comincia a tredici. Grande abbastanza per scavare, grande abbastanza per chiavare. Perlomeno è così che diceva zio Narol. Tuttavia mi sono sposato solo sei mesi fa, quindi non so perché lo dicesse.

Eo mi danza nei pensieri mentre do un’occhiata al pannello di controllo e faccio scivolare le dita della scava-Chela su una vena fresca. Eo. Certe volte è difficile non pensarla come la chiamavamo da bambini.

Piccola Eo, una ragazzina minuta, nascosta dietro una folta criniera rossa. Rossa come le rocce intorno a me, non rosso acceso, ma rosso ruggine. Rossa come la nostra casa, come marte. Anche Eo ha sedici anni. E potrà pure essere come me – originaria di un clan di minatori Rossi, un clan di canti, danza e terra, ma potrebbe essere fatta d’aria, dell’etere che lega le stelle come una trapunta. non che io abbia mai visto le stelle. nessun Rosso delle colonie minerarie le vede.

La Piccola Eo. Volevano farla sposare appena compiut iquattordici anni, come tutte le ragazze del clan. Invece lei si prese le razioni ristrette e aspettò che io avessi sedici anni, l’Età nuziale per gli uomini, prima di farsi scivolare quella cordicella al dito. Disse di aver saputo che ci saremmo sposati fin da quando eravamo bambini. Io no.

«Fermi, fermi, fermi!» fa di colpo zio Narol sul canale auricolare. «Darrow, fermo, ragazzo!» Le mie dita si paralizzano. Lui si trova parecchio più in alto con tutti gli altri, a osservare il mio avanzamento in cima alla sua unità.

«E adesso cosa c’è?» chiedo, seccato. non mi piace essere interrotto.

«E adesso cosa c’è, chiede il piccolo SubInfero» ridacchia il vecchio Barlow.

«Una sacca di gas, ecco cosa» ribatte secco Narol. È lui il RadioCapo della nostra unità di oltre duecento persone. «Fermo. Chiamo una squadra di Perlustratori a controllare i dettagli prima che tu ci spedisca tutti all’inferno.»

«Quella sacca di gas? È roba da poco» dico. «Più una bollicina che altro. Posso gestirla.»

«Un anno di trivella e pensa di distinguere la testa dal buco del culo! Povero piccolo pisciasotto» aggiunge sarcastico il vecchio Barlow.

«Ricorda le parole della nostra aurea guida: pazienza e Obbedienza, giovanotto. La pazienza è la parte migliore del valore. E l’Obbedienza la parte migliore dell’umanità. Ascolta i tuoi vecchi.»

Al proverbio alzo gli occhi al cielo. se gli anziani riuscissero a fare quello che faccio io, magari varrebbe la pena ascoltare. ma sono lenti di mano e testa. Certe volte ho la sensazione che mi vorrebbero esattamente così, specialmente mio zio.

«Ci sono quasi» dico. «se pensate ci sia una sacca di gas, posso semplicemente fare un salto giù e controllare a mano. Facile. senza tirarla per le lunghe.»

Raccomanderanno cautela. Come se la cautela li avesse mai aiutati. sono secoli che non vinciamo un Lauro.

«Vuoi che Eo diventi vedova?» ride Barlow, la voce crepitante per l’elettricità. «A me sta bene. È proprio un bell’affarino. Scava in quella sacca e lasciala a me. Sarò vecchio e grasso, ma il mio trapano lascia ancora il segno.»

Un coro di risate dai duecento scavatori più in alto. Le nocche mi sbiancano mentre stringo i comandi.

«Ascolta zio Narol, Darrow. Meglio tirarsi indietro finché non abbiamo una lettura» aggiunge mio fratello Kieran. Ha tre anni più di me. Ciò gli fa credere di essere saggio, di saperla più lunga. Conosce solo la prudenza. «C’è tempo.»

«Tempo? Diamine, ci vorranno ore» ribatto aspramente. su questo sono tutti contro di me. Tutti in errore, tutti lenti, tutti a non capire come al Lauro manchi solo una mossa audace. C’è anche dell’altro, dubitano di me. «Stai facendo il codardo, Narol.»

Silenzio dall’altra parte della linea.

Dare a qualcuno del codardo non è un bel modo di ottenere la sua collaborazione. non avrei dovuto dirlo.

«Io dico, fai tu stesso la scansione» si lagna Loran, mio cugino e figlio di Narol. «Se non lo fai i Gamma saranno praticamente degli Oro – otterranno il Lauro per, be’, la centesima volta.»

Il Lauro. Ventiquattro clan nella colonia mineraria sotterranea di Lykos, un Lauro per distretto. Significa più cibo da mangiare. Più stufe per affumicare. Trapunte importate dalla Terra. broda ambrata col marchio di qualità della società. significa vincere. il clan Gamma lo detiene a memoria d’uomo. E così, per noi clan inferiori, la Quota è sempre stata la stessa, appena sufficiente per tirare avanti. Eo dice che il Lauro è la carota che la società ci agita davanti, sempre a un soffio dalla nostra portata. Appena sufficiente a farci sapere la nostra piccolezza e quanto poco possiamo fare al riguardo. Noi dovremmo essere pionieri. Eo ci definisce schiavi. io penso solo che non ci abbiamo mai provato abbastanza. Per via degli anziani non abbiamo corso grandi rischi.

«Loran, chiudi il becco sul Lauro. Colpisci il gas e ci perderemo tutti gli stramaledetti Lauri del mondo, ragazzo» ringhia lo zio Narol.

Sta biascicando. Praticamente riesco a fiutare la bevanda dall’auricolare. Vuole chiamare una squadra di sensori a coprirgli il culo. oppure ha paura. Quel beone è nato pisciandosi addosso per la paura. Di cosa? Dei nostri padroni, gli oro? Dei loro tirapiedi, i Grigi? Chi lo sa? Poche persone. Chi se ne importa? Ancora meno. in effetti, c’è stata una sola persona che si preoccupasse per mio zio, ed è morta con lui che gli tirava i piedi. mio zio è debole. È cauto, immoderato nel bere, una pallida ombra di mio padre. sbatte gli occhi a lungo e forte, come se ogni volta gli facesse male aprirli e vedere ancora il mondo. non mi fido di lui, qui sotto in miniera, o in qualsiasi altro posto, per quel che conta. ma mia madre mi direbbe di ascoltarlo; mi ricorderebbe di rispettare quelli più anziani. Anche se sono sposato, anche se sono il subinfero del mio clan, mi direbbe che “le mie vesciche non hanno ancora fatto i calli”. obbedirò, anche se mi fa uscire di testa come il sudore che mi pizzica la faccia.

«Bene» mormoro.

Serro a pugno la scavatrice e aspetto che mio zio chiami perché scendano dalla sicurezza del salone sopra la galleria. Ci vorranno ore. Faccio il calcolo: otto ore al fischio di richiamo. Per battere i Gamma, avrei dovuto mantenere un ritmo di 156.5 chili all’ora. Alla squadra di Perlustratori occorreranno due ore e mezzo per arrivare e fare il loro lavoro, nella migliore delle ipotesi. Perciò dopo dovrei pompare 227.6 chili l’ora. Impossibile. Ma se continuo e dribblo quella scansione noiosa, il Lauro è nostro. Mi domando se zio Narol e Barlow sappiano quanto siamo vicini. Probabilmente sì. Probabilmente pensano non ci sia mai niente per cui valga la pena. Che un intervento divino fotterà le nostre possibilità. È Gamma a detenere il Lauro. È così che stanno le cose e così saranno sempre. noi Lambda cerchiamo solo di tirare a campare con le nostre provviste e magre comodità. Nessuna risalita. Nessuna caduta. Niente vale il rischio di alterare la gerarchia. Mio padre l’ha scoperto in cima a un cappio. 

Niente vale la pena di rischiare la morte. Sul petto, sento la fascetta matrimoniale fatta di capelli e seta appesa al cordoncino che porto al collo, e penso alle costole di Eo.

Questo mese vedrò ancora quelle cosucce esili sotto la sua pelle. Lei andrà a chiedere avanzi alle famiglie Gamma, alle mie spalle, e io fingerò di non saperlo. ma avremo comunque fame. io mangio troppo perché ho sedici anni e continuo a crescere alto; Eo mente e dice di non aver mai avuto un grande appetito. Alcune donne si vendono per cibo e beni di lusso agli scarti (i Grigi, a essere precisi), il distaccamento di truppe della società nella nostra piccola colonia mineraria. Lei non venderebbe il suo corpo per sfamarmi. oppure sì? Ma poi ci penso. Io farei qualsiasi cosa per sfamarla…

Guardo giù, oltre la punta della mia trivella. È un bel volo fino in fondo al buco che ho scavato. Nient’altro che roccia fusa e trivelle sibilanti. Ma, prima di sapere cosa stia facendo, sono fuori dalle mie cinture, lo scanner in mano, e sto saltando giù per un centinaio di metri, verso le dita della trivella. Per rallentare la caduta sbatacchio avanti e indietro tra la parete verticale del condotto minerario e il lungo corpo vibrante della trivella. Quando sporgo un braccio per aggrapparmi a una ruota dentata appena sopra le dita della trivella, mi assicuro di non essere vicino a un covo di vipere delle fosse. Le dieci trivelle luccicano per il calore. L’aria scintilla e assume contorni distorti. Sento il calore sulla faccia, lo avverto pugnalarmi gli occhi, farmi male allo stomaco e alle palle. Quelle scavatrici ti fonderebbero le ossa se non stai attento. E io non sono attento. Solo lesto. Scendo mano dopo mano, calando prima coi piedi tra le dita della trivella, così da abbassare lo scanner abbastanza vicino alla sacca di gas per ottenere una scansione. Il calore è insopportabile. È stato uno sbaglio. Delle voci mi berciano qualcosa nell’auricolare. Sto quasi per sfiorare uno dei trapani quando finalmente mi calo abbastanza vicino alla sacca gassosa. Lo scanner mi tremola in mano mentre effettua la lettura. La mia tuta sta gorgogliando e fiuto qualcosa di dolce e intenso, come sciroppo bruciato. Per un SubInfero, è l’odore della morte.

© 2013 Pierce Brown

Traduzione di Edoardo Rialti

Su concessione di Mondadori Libri S.p.A.