Dopo la morte di Ellen, matriarca della famiglia Graham, la figlia Annie cerca di elaborare il lutto per una madre ingombrante, con la quale ha vissuto periodi conflittuali e che celava più di un mistero. A causa del suicidio sia del fratello che del padre, la donna aveva passato un lungo periodo lontana da Ellen, non facendole mai conoscere il primogenito Peter. Col tempo però le due donne si erano riavvicinate e la secondo genita Charlie si era affezionata alla nonna, tanto da essere la più turbata alla sua morte. Ora la famiglia Graham è rimasta da sola a vivere nella vecchia casa in mezzo al bosco, forse incapace di appianare i conflitti che si fanno strada tra loro.

Ci sono gli horror che seguono pedissequamente i cliché del genere, ragazze urlanti, primi piani che non lasciano vedere lo sfondo, stanze buie e mal inquadrate. Esiste un pubblico (e non piccolo) a cui questi film sono dedicati, per il quale centrale è il piacere per la reiterazione, dove il punto non è tanto l’“avere paura”, quanto il divertimento di qualche sequenza un po’conturbante, al massimo splatter. Hereditary – Le radici del male di Ari Aster alla sua prima regia e sceneggiatura in un lungometraggio, non è quel genere di horror e getta lo spettatore, anche quello più scafato, lontano dalla propria comfort zone. Basti dire che, si tratta in prima battuta di un dramma famigliare, in cui l’elemento paranormale per un lungo tempo è appena sfiorato.

Molti sono i richiami interni alla storia, come la professione di Annie, una costruttrice di perfetti diorami che Aster, con un elegante movimento di macchina e continuità senza stacchi di montaggio, trasforma nella casa dei Graham e attraverso i quali la donna racconta fatti della propria vita (come la scena in cui si vede in un modellino Ellen allattare Charlie ancora in fasce). Anche la scena a scuola in cui l’insegnate di Peter chiede ai propri allievi se sia peggio una tragedia data da un destino predestinato o dalla libertà di scelta, dimostra l’intenzione di Aster di usare più piani narrativi. Agli attori è chiesto di portare sulle spalle il ritmo del racconto (manca quasi del tutto la musica e scene d’azione), con Tony Collette bravissima e giustamente sopra le righe, Gabriel Byrne discreto e silenzioso, Alex Wolff in grado di passare da teenager scanzonato ad un ruolo drammatico e infine l’inquietante Milly Shapiro.

Quando l’elemento horror arriva è una detonazione accompagnata da un sospiro di sollievo, perché se è vero che vedere il male è terrorizzante, è sempre meglio trovarselo davanti che percepirlo sotto la pelle.