Torino, estate del ‘96, un trasporto valori delle Poste viene depredato da ignoti. I sacchi di banconote, esaminati a destinazione, contengono solamente ritagli della rivista Topolino, nessuno sa spiegarsi come e quando sia avvenuta la sostituzione. I quotidiani battezzano gli ignoti colpevoli come “gli uomini d’oro”. Sembra finzione, ma è accaduto veramente e Vincenzo Alfieri, giovane regista e sceneggiatore, si è ispirato proprio a questo evento di cronaca per gettare le basi del suo Gli uomini d’oro, brioso film noir che strizza l’occhio al genere pulp.

Trama – Cante

1996, Luigi Meroni (Giampaolo Morelli), napoletano trapiantato a Torino, è terribilmente insoddisfatto della propria vita. Tollera a malapena la sveglia che dilania le sue mattine; ogni giorno veste con sofferenza l’uniforme delle Poste e lo fa solamente con l’intento di accumulare il minimo dei contributi pensionistici. Sogna di diventare un “baby pensionato”, di godersi un opulento futuro di danze e sesso in Costa Rica, ma le sue ambizioni si infrangono inaspettatamente contro la riforma Dini, legge che gli impone di lavorare almeno un altro ventennio.

Sconfortato, afflitto dal freddo grigiume del capoluogo piemontese, si sfoga con il collega Alvise Zago (Fabio De Luigi), torinese doc caratterizzato da un malcelato razzismo nei confronti dei meridionali. In questo confronto/scontro, Luigi realizza di non poter più resistere alla mediocrità dei suoi giorni, di voler provare il tutto per tutto svagilando il furgone valori che guida ormai da anni. 

Tecnica – Cella

Vincenzo Alfieri, classe 1986, vanta un curriculum vitae ibrido. Film, cortometraggi, serie web, pubblicità, televisione, videoclip, il tutto balzando tra la seggiola da regista, la penna dello sceneggiatore e il palco attoriale. Un “tuttologo” che, contro ogni previsione, riesce a vestire con abilità ogni ruolo. Gli uomini d’oro, suo secondo lungometraggio, dimostra una certa ambizione. Alfieri non si accontenta di riprese pacate, banali, anzi promuove con una certa prepotenza inquadrature e movimenti di camera dinamici e freschi, peccando occasionalmente di hybris nell’abusare di tecniche francamente superflue.

Ci prova, ma ci prova troppo ed esagera. Un esempio: i problemi economici di Alvise sono suggeriti con garbatezza esibendo una montatura degli occhiali malamente riparata; peccato che poco dopo il tratto sia enfatizzato ai limiti del grottesco, scadendo nel pacchiano. Questo atteggiamento si estende anche sul piano tecnico con continui richiami ai suoi personali riferimenti cinematografici, non tenendo conto di quanto alcune scelte vadano a minare l’autonomia identitaria dell’opera.

Vittima della costruzione imperfetta della pellicola, è l’epilogo. Appagante sul piano narrativo, il finale giunge in coda a una costruzione per capitoli che si chiude frettolosamente, quasi bruscamente, il tutto esacerbato da dei titoli di coda che lasciano l’amaro in bocca.

Attori – Guerzoni

Giampaolo Morelli (L’ispettore Coliandro, Paz, Smetto quando voglio – Masterclass) spicca per abilità e carisma. Edonista, depresso, furente, amichevole, manipolatore: il Luigi da lui interpretato esplora a tutto tondo lo spettro dell’emotività umana, reggendo buona parte della pellicola sulle sue sole spalle. Solo Fabio De Luigi (Come Dio comanda, Gli amici del bar Margherita) potrebbe contendergli il ruolo di protagonista, ma le abilità dell’attore, temprato da infinite commedie, non riescono a entrare in perfetta sintonia col personaggio, evidentemente scritto sulla falsariga del Walter White di Breaking Bad. Considerando il retaggio da comico, De Luigi ne esce vincitore, ma il confronto con l’eccelso Bryan Cranston non gioca a suo favore.

Giuseppe Ragone (Sulla mia pelle) ed Edoardo Leo (Smetto quando voglio – Masterclass, Perfetti sconosciuti) si dimostrano capaci e convincenti, ma limitati a ruoli minori. Ancora più marginale è il personaggio di Gian Marco Tognazzi (To Rome with Love, Romanzo criminale), un ambiguissimo mercante del lusso con la passione dello strozzinaggio. Raffinato, inquietante, minaccioso, ma relegato allo sfondo. 

Conclusioni – Ughini

Gli uomini d’oro analizza con leggerezza presupposti intriganti: è uno spaccato sulle spietate ambizioni umane, sulle insidie in cui si incappa nel perseguire frettolosamente la scalata sociale, sull’infantilizzazione dei desideri consumistici, sulla controproducente competizione tra ceti bassi. Una serie di messaggi squisitamente confezionati in una struttura noir leggera e coinvolgente. Alfieri non ha ancora maturato il genio creativo del suo idolo, Quentin Tarantino, ma l’acerbità esibita non dà noia, anzi suggerisce qui un enorme potenziale di crescita.