Una raccolta di racconti di autori diversi e con tematiche diverse nata, innanzitutto, da un’amicizia, basata su una comune visione del mondo e di sé. Questa potrebbe essere la definizione migliore de La Compagnia dell’Oste.

Già il titolo lascia sottintendere che si tratta non di un gruppo eterogeneo, ma di una compagnia, ossia di un insieme di persone che cercano di sostenersi a vicenda, ciascuno con le proprie caratteristiche, le proprie risorse e peculiarità, nell’avventura creativa e non solo.

La figura dell’Oste richiama poi alla convivialità e all’accoglienza. L’Oste amante dei racconti mette insieme soggetti diversi, favorendo scambi e conoscenze reciproche tra i suoi ospiti, il tutto accompagnato da buon cibo e buone bevande: quelli che nutrono non soltanto il corpo, ma anche l’anima.  

Se la Cornice rimanda alla tradizione letteraria: Chaucer, innanzitutto, ma anche Boccaccio e Basile, benché i nostri racconti non siano suddivisi in diverse giornate, l’aspetto principale rimane comunque quello del mettere in comune idee ed esperienze. Ed è proprio per questo che è nato il gruppo degli Inkiostri.

Il nome – omaggio ai ben più noti Inklings - permette immediatamente di comprendere quali siano i riferimenti letterari dei suoi membri: J.R.R.Tolkien e C.S.Lewis, innanzitutto, a cui si aggiungono Chesterton e Mac Donald, ma anche Borges e molti altri; alla letteratura si unisce la passione per la musica e per il cinema: influssi che si sommano tra loro per dare origine a qualcosa di nuovo, ma che ha il sapore dell’antico perché archetipico.

La narrazione di ciascun autore di questa raccolta mostra caratteri peculiari e variegati, ma si sente, pur nella loro diversità e originalità, una certa “aria di famiglia”. C’è sicuramente una predilezione per il fantastico, inteso come letteratura non realistica, declinato nelle sue diverse accezioni: dal racconto di ambientazione fantasy, a quello fantascientifico. Altri in cui si trascorre dalla dimensione quotidiana ad un Oltre, che ne svela l’autentico significato. In tutti, da quelli più avventurosi, a quelli maggiormente intimistici, il lettore può rintracciare un leitmotiv: quello di una ricerca metafisica, del senso del Sacro e dell’importanza di valori etici che non siano fini a se stessi, ma rimandino al Vero, al Bello e al Bene.

Il tema della morte e dell’immortalità, che secondo J. R. R.Tolkien caratterizza interamente la sua opera e che un essere umano non può fare a meno di trattare, si manifesta in forme diverse. Ad esso si accompagna la pugna spiritualis che richiede, innanzitutto, una lotta interiore. Si tratta di affrontare le proprie paure, la stanchezza e lo scoraggiamento che conducono alla disperazione, oltre al bisogno di possesso che caratterizza ciascuno di noi, per affidarsi completamente a Qualcosa o Qualcuno di più grande, di cui fidarsi e a cui affidarsi per affrontare il pelago della vita. E tutto ciò si affronta meglio se si è insieme, magari sdrammatizzando le situazioni con un sorriso e una battuta, perché , come scriveva Chesterton, gli angeli sanno volare perché non si prendono troppo sul serio.

Tutti gli autori, inoltre, si sentono un po’ Hobbit, e fanno proprie le parole che Thorin Scudo di Quercia rivolge a Bilbo prima di morire: «Se un maggior numero di noi stimasse cibo, allegria e canzoni al di sopra dei tesori d’oro, questo sarebbe un mondo più lieto».[1]

Perché si è scelto, quindi, di utilizzare la forma del racconto? Se la saggistica offre riflessioni e approfondimenti importanti, la narrativa permette di giungere ad una comprensione più profonda e vissuta:

«Voi siete le vostre storie. Siete il prodotto di tutte le storie che avete ascoltato e vissuto… Hanno modellato la vostra visione di voi stessi, del mondo e del posto che in esso occupate»[2], afferma Daniel Taylor, scrittore americano di ispirazione cristiana, nel suo saggio “Le storie ci prendono per mano”. Noi siamo perciò anche l’esito delle storie che abbiamo ascoltato e che abbiamo letto; il racconto, infatti, permette l’immedesimazione, raggiunge la nostra componente emotiva, oltre a quella razionale, e così facendo forma il carattere, la volontà e la capacità di compiere scelte anche in situazioni difficili.

Nel saggio “Sulle Fiabe”[3], Tolkien espone teoricamente il valore della narrazione ed in particolare di quella che si serve della fantasia come risposta ad alcuni bisogni fondamentali dell’umanità: riscoperta, evasione, consolazione, per concludere con il diritto alla “subcreazione”, ossia la capacità tipicamente umana di creare miti, fiabe e racconti imitando il Creatore; secondo l’Autore in essi tralucono e baluginano frammenti dell’unica Verità da cui proveniamo e a cui aspiriamo.

Le popolazioni arcaiche hanno fondato la propria esistenza sui miti, ossia sui racconti che hanno per protagonisti gli dei e gli eroi fondatori; le loro gesta compiute in un Tempo Sacro che precede ogni temporalità storica devono essere continuamente rinarrate per far riaccadere quegli eventi e sacralizzare il tempo profano. Ma i bardi, i cantastorie e i grìot trasmettevano ai loro uditori anche un ricco patrimonio di storie umoristiche, fiabe e aneddoti, altrettanto importanti poiché fondativi della comunità, da un punto di vista psicologico oltre che sociale.  

Questa raccolta vuole essere un piccolo contributo per continuare la tradizione della condivisione del racconto, che i nostri vecchi vivevano nelle vià, le veglie nelle stalle, nelle lunghe sere d’inverno. Perciò continuiamo a raccontare, perché, come afferma Clarissa Pinkola Estés, psicoanalista e cantadora: «alle grandi questioni esistenziali, soprattutto se riguardano il cuore e l’anima,il più delle volte si risponde narrando una storia»[4].

[1] J.R.R. Tolkien, Lo Hobbit, Adelphi,  Milano 1973

[2] D. Taylor, Le storie ci prendono per mano,Frassinelli, Milano 1999

[3] J.R.R. Tolkien, Sulle Fiabe, in Albero e foglia, Bompiani, Milano 2004.

[4] C.Pinkola Estés, Storie di Donne selvagge, Sperling & Kupfer, Milano 2008