Gli Stati Uniti sono devastati da una profonda guerra civile. Nel paese distrutto dalla guerra attacchi terroristici e distruzione provocata da un esercito ormai allo sbando, sono all’ordine del giorno. Da una parte c’è Washington dove vive asserragliato il presidente, arrivato al suo terzo mandato dopo aver sciolto l’FBI, dall’altro gli stati secessionisti guidati da California e Texas che si oppongono al governo. La fotografa Lee e il giornalista Joel decidono che l’unica cosa da fare per raccontare la storia sia intervistare il presidente prima che venga preso e giustiziato. Insieme a loro partono da New York l’anziano giornalista Sammy che non riesce ancora ad andare in pensione, e la giovane fotografa Jessie, entusiasta nel seguire le orme di Lee ma impreparata a ciò che si trova a vivere.  

Che l’ispirazione ad Alex Garland nello scrivere la sceneggiatura di Civil War sia arrivata dai fatti di Capitol Hill, o che il suo presidente degli Stati Uniti sia una sorta di Donald Trump, non è importante, perché il suo film è solo tangenzialmente un monito al futuro politico degli USA. Più che un avvertimento a probabili scenari apocalittici che potrebbero svilupparsi da qui a qualche anno, è il realismo che a Garland interessa, le esplosioni e i corpi dei civili dilaniati dai kamikaze, la bellezza di un viaggio on the road devastato dalla guerra e naturalmente la grande irruzione finale dell’esercito alla Casa Bianca. Non bisogna scomodare un futuro distopico per raccontare l’orrore della guerra, eppure trasportandola da Gaza a Washington qualcosa di sicuro cambia.

Lo sguardo di Garland sembra diviso tra un reportage documentaristico con sincopati movimenti di macchina e un montaggio che intermezza le foto di reportage fatte da Lee e Jessie, e la tradizione del grande cinema di guerra all’Apocalypse Now. Civil War alterna con equilibrio momenti in cui l’immagine è chiamata ad essere autonoma, quasi neutrale nel voler mostrare l’orrore di ciò che i quattro si trovano ad affrontare, ad altri in cui il sentimento d’angoscia per esecuzioni sommarie fatte dall’esercito dei “buoni”, passa anche attraverso i mezzi propri del cinema come rallenty o l’uso di musica extradiegetica.

Ma come si diceva ciò che interessa a Garland non è il racconto tout court della guerra ma, la sua scrittura, come ha già dimostrato in passato in pellicole come Ex Machina, Annientamento e Men, hanno un forte e spesso preponderante carattere morale. In Civil War è lo sguardo che l’Occidente ha sulla guerra ad essere messo sotto accusa e paradossalmente sono i suoi protagonisti drogati dall’adrenalina nell’assistere a continui massacri, ad essere il centro di un discorso moralista. E pare dire Garland, non ci sono giustificazioni dietro le quali ci si possa nascondere perché la scelta di cosa mostrare e dove spingersi, è solo individuale e non data dal contesto. Una sentenza capitale che toglie allo spettatore qualunque margine d’ambiguità interpretativa o di un proprio giudizio personale.