– Non credo – sbottò Dàhar; benché temesse e odiasse quel potere, avrebbe dovuto usare le Spoglie del Vuoto.

Il dolore che l’evocazione gli causava scivolò sulla pelle del viso, scese a graffiargli il petto e le braccia; l’uomo represse una smorfia, trasse un respiro e strinse i denti.

Fèral fece qualche passo indietro, perplessa; lo fu di più quando dal neo che Dàhar aveva sulla fronte si dipartirono fili sottili, che sembravano pezzi di un tatuaggio tribale, ma erano mobili, quasi vivi, si intrecciarono a formare ghirigori su tutta la faccia e affondarono nel collo della blusa.

L’uomo contorse la bocca, come se provasse un terribile dolore, poi quei disegni aggredirono anche il dorso delle mani e scivolarono sulle dita, avvolgendole in guanti che parevano decorati. Fèral vide le braccia tremare per lo sforzo e fu sul punto di scattare in aiuto del compagno, ma dovette fermarsi: una nebbia scura si materializzò dall’aria stessa, che vibrava come mossa da una fiamma, si rapprese sul corpo di Dàhar e lo rivestì, avvinghiandosi agli abiti e alla pelle, che ne fu nascosta. Quando l’uomo brandì la spada, la sostanza nera vi strisciò, ricoprendo la lama per tutta la lunghezza.

– Nemmeno tu sei quello che sembri – disse Uhn con una voce irriconoscibile, mentre allargava le dita a dismisura; quattro tagli si aprirono nelle mani e risalirono le braccia fino alle spalle, dalle quali ora si dipartivano cinque tentacoli, con punte come pungiglioni.

– Sta’ attento, Dàhar – sussurrò Fèral.

Non temere. Rispose lui, e quelle parole le esplosero nella mente, tanto forti da risultare dolorose. Anche Uhn avvertì il colpo e la faccia si contrasse in una maschera di sofferenza, ma il bandito attaccò un attimo dopo. Dàhar non si mosse, i tentacoli si allungarono per ghermirlo, mentre sul volto di Uhn si disegnava un sorriso di scherno. Le unghie velenose scivolarono sulla sostanza che avvolgeva il cacciatore come su una corazza di metallo, senza sortire effetti.

Dàhar colpì una prima volta, tranciando tutti i tentacoli, poi affondò la spada nella fronte dell’avversario che cadde senza un gemito. Il corpo non aveva ancora toccato terra, quando il cacciatore lo decapitò.

Fèral fu sorpresa da tanta velocità e della semplicità con cui la lama aveva trafitto l’osso, ma non fece in tempo a dar voce a quelle considerazioni: la sostanza che proteggeva Dàhar sublimò, ritrasformandosi in nebbia e svanendo; gli strani ghirigori che ne marchiavano la pelle furono risucchiati dal neo sulla fronte e il cacciatore cadde a terra, esausto.

Quando le Spoglie del Vuoto si ritirarono, Dàhar fu sommerso dal consueto dolore che lasciavano dietro di sé, come le macerie e il fango dopo un’inondazione. Fèral lo aiutò a rialzarsi, raccolse la testa di Kug e la mise in un sacco, assieme a quella di Uhn.

– Grazie – le disse lui.

– Come stai? – gli chiese la cacciatrice senza nascondere un filo di apprensione.

– Bene, ora che le Spoglie del Vuoto sono sparite.

– Cosa sono?

– Una maledizione – tagliò corto Dàhar che non aveva voglia di parlarne, – a volte utile, ma sempre pericolosa.

– Anche per te?

– Per il mondo – le sussurrò di rimando.

Con sorpresa e sollievo per l’uomo, Fèral scrollò le spalle; come lui aveva ignorato il suo aspetto, la cacciatrice sembrava decisa a non indagare sugli strani poteri che governava. – Ora devi prestarmi un po’ della tua polvere – disse lei sorridendo, nonostante il viso fosse contratto dal dolore, – se non vuoi che queste teste puzzino entro un paio di giorni!

– Sì – Dàhar trovò la forza per sorridere, pur essendo molto provato.

Fèral fu distratta: – Guarda! – sbottò, indicando qualcosa vicino al corpo di Kug.

La bestia portava un ciondolo di legno, che ora giaceva nella polvere. Era una piccola testa umana, femminile, estremamente dettagliata.

– Cos’è? – chiese Dàhar.

Fèral sospirò: – Un ritratto.

– Di chi?

La cacciatrice non rispose subito, avvicinandosi al corpo di Uhn. – Lo sapevo, gliel’avevo visto addosso!

Raccolse qualcosa e lo fece oscillare davanti al naso di Dàhar: era lo stesso pendente di Kug.

– Che significa? – le chiese perplesso.

Fèral guardò la bestia decapitata. – Pensavo fosse un cane, o un animale di qualche tipo, invece era come me.

– Kug e Uhn erano fratelli?

– Quella del ritratto è la madre, ne sono sicura.

– Erano Emibestie – disse Dàhar accantonando la questione con una scrollata di spalle, – ho ucciso cose più strane.