Non sono solamente i fan e l'autrice della saga più venduta al mondo a piangerne la fine dopo ben dieci anni di divertimento, colpi di scena, suspense e batticuori.

Stanno piangendo, e ben più amaramente, anche quegli editori che hanno, con lungimiranza, fiutato l'affare fin dai tempi della Pietra Filosofale e ai quali la saga potteriana ha portato nelle tasche fiumi di denaro sonante.

Non è infatti un segreto che questi libri siano stati una fonte di reddito tale che, durante gli anni in cui non c'era un nuovo Harry Potter in uscita perché la Rowling era ancora impegnata a scrivere il nuovo episodio, i bilanci viravano costantemente in picchiata rendendo molto faticoso mantenerli in attivo, come del resto succede normalmente nel settore editoriale che non può contare su fenomeni analoghi.

Harry Potter era quindi molto più di un ago della bilancia, rappresentava uno dei  piatti della stessa, quello stracolmo, l'unico capace di farla pendere inequivolcabilmente verso l'agognato segno 'più', verso la conseguente montagna di dollaroni e persino l'impennata del titolo se la casa editrice in questione era anche quotata in borsa.

Comprensibile allora che il mondo editoriale che ha goduto del beneficio Potter sia alla disperata ricerca del successore del maghetto. Comprensibile anche che ne sia ancor più prepotentemente alla ricerca chi è rimasto fuori dai giochi di Hogwarts ma, avendo visto quello che può fare una serie di libri, non attende altro che di emulare i fortunati colleghi di cui sopra.

Da parecchi anni ormai, si punta il dito su questo o quel promettente romanzo, senza che però le promesse si siano effettivamente concretizzate. Ma in questo articolo non vogliamo addentrarci nel perché tali libri non abbiano innescato il nuovo e atteso fenomeno, quanto porre una questione che nessuno sembra voler contemplare e che invece potrebbe essere determinante per individuare l'ambito successore del maghetto di J.K Rowling e cioè il fatto che l'aspettativa è focalizzata unicamente sul mercato britannico e americano.

Non è un segreto - basta mettere piede in una libreria nostrana per osservarlo coi propri occhi - che il mercato editoriale sia fagocitato per una larga fetta da prodotti d'Oltremanica e d'Oltreoceano. In Italia, per alcuni generi come il rosa, ci sono addirittura degli editori che comprano manoscritti esclusivamente dall'estero, rifiutando a priori di esaminare quelli nostrani (!).

Viceversa, è noto che gli editori angloamericani abbiano una posizione preconcetta verso i manoscritti stranieri, non parliamo poi di quelli italiani, che sono considerati davvero 'la frutta', a meno che non si siano già rivelati comprovati ultra best seller alla Umberto Eco, e quindi il rischio di puntare su di loro sia praticamente nullo.

Se poi circoscriviamo il discorso al settore fantasy - che seppur sdoganato dal recente successo del Signore degli Anelli e dello stesso Harry Potter resta comunque di nicchia - i dati sono ancora più sconfortanti. Le nostre due saghe di punta iniziano ad avere numeri che fanno girare la testa: 200.000 copie vendute nel  mondo per le Cronache del Mondo Emerso di Licia Troisi e due volte tanto per la serie della Bambina della Sesta Luna di Moony Witcher, alias Roberta Rizzo.

Le due autrici sono state tradotte in Germania, Turchia, Francia, Spagna, Brasile, Russia, Cina e Corea... Eppure una traduzione anglofona manca ancora all'appello. Questo è indicativo di quanto sia difficile farsi notare dai vertici di quel particolare mercato, anche se probabilmente tale traguardo, per le due succitate scrittrici, è comunque molto vicino ed è ormai solo questione di tempo.

Qualche giorno fa, sul forum di FantasyMagazine si dibatteva sul fatto se una testata come la nostra debba prodigarsi a valorizzare gli autori nostrani, a fare 'cassa di risonanza' non solo per convogliare i lettori italiani verso altri lidi che non siano solo Harry Potter, ma anche per cercare di attirare l'attenzione dei media britannici e americani, e con loro forse gli editori di quei Paesi. Perché chissà che il 'nuovo Harry Potter' non possa parlare addirittura Italiano. Non si può certo escludere, come non si può escludere che possa parlare Lappone o Indostano o Tagalog. Dopotutto, l'inconscio collettivo da cui pescano gli autori angloamericani è il medesimo del resto dell'umanità, dunque l'ipotesi non sembra così improbabile.

Amplificare il lavoro dei nostri autori è una strada che, come testata,  ci piacerebbe percorrere, anche se per farlo avremo bisogno dell'aiuto degli scrittori stessi, visto che questi ultimi sono le fonti primarie che producono notizie da convogliare all'esterno. Ci auguriamo quindi che gli autori di casa nostra accolgano l'appello, anche al di fuori dell'ottica 'dopo Potter' qui esaminata, ma semplicemente come sviluppo di una sana abitudine a valorizzare quel che si produce.

Non si tratta di becero campanilismo, ma di un tentativo di invertire la tendenza psicologica tutta italiana di considerarsi sempre 'figli di un Dio minore' di fronte ai prodotti di lingua inglese, dimenticando che il nostro Paese ha alle spalle una tradizione letteraria che non teme il confronto con nessun'altra.

Di fronte a questi ingiustificati ostracismi, è allora con una punta di soddisfazione che vediamo brancolare ancora nel buio i luminari angloamericani che dettano legge nell'editoria mondiale, nonostante, siamo certi, la Cerca del Potter-successore debba essere stata intrapresa già da anni, visto che nel mondo dei libri paga solo la politica della formica, e non certo quella della cicala. E finché la loro attenzione non andrà oltre i confini dei loro Paesi, non può che sgorgare istintivo il commento "ben vi sta!". Il colonialismo culturale può pagare fino a un certo punto, perché quando si autolimita la creatività attraverso una politica miope, si deve mettere in conto che la capacità di riprodurre un fenomeno senza precedenti viene circoscritta moltissimo.

E noi siamo invece sicuri che là fuori, dagli Appennini alle Ande per così dire, ci siano dei manoscritti degni di Harry Potter se non di più. Resta da capire se e quando se ne accorgeranno anche i Signori dell'Editoria angolamericana, che attualmente è la padrona del mondo e non a caso la più corteggiata e ossequiata.

Siamo convinti che, finché tale editoria  non riuscirà a valicare i propri confini, puntando il proprio telescopio non ai requisiti geografici ma anzitutto a quelli di contenuto, la ricerca del novello Harry sarà molto più difficile e il suo ritrovamento conterà su un minor gioco di probabilità. Perché, come asseriva Henry Miller, "la nostra meta non è mai un luogo ma un modo diverso di vedere le cose". E per farlo, anche nel mondo dell'editoria, non c'è bisogno solo del fiuto derivante dall'esperienza, ma anche, e soprattutto, di qualcos' altro. Bisogna puntare quei telescopi, per dirla alla Samuel Coleridge, verso l'interno, verso la propria anima.

Non a caso Harry Potter è stato 'scoperto', editorialmente parlando, da una bimba di otto anni, la figlia del presidente di Bloombury. Perché i bambini non hanno conoscenza di best seller o di business o di marketing ma, proprio perché mancanti di esperienza pregressa e di fini teoremi astratti, non possono basarsi, nel giudicare le cose, che sulle proprie emozioni.

Solo riappropriandosi di questo strumento l'editoria  godrà allora dell'unico mezzo determinante per individuare con certezza quel nuovo meraviglioso universo cui sta dando la caccia, quella meravigliosa alchimia di ingredienti così ben accidentalmente confezionata in Harry Potter e in grado di replicarne il suo successo. E' questo l'unico vero 'metal detector' capace di funzionare in questa ricerca da autentico ago nel pagliaio, perché è su quella lunghezza d'onda che 'l'oscuro manoscritto del desiderio' è sintonizzato. Solo usando il Telescopio Interiore è possibile infatti aggiungere "mondi e mondi nascosti alla coscienza".

Quegli stessi mondi che la Rowling ha saputo dischiudere dinanzi a tutti noi.