Dramma in cucine. Cosa si nasconde dietro le quinte di un ristorante di Times Square. Non un posto stellato, ma uno di quei ristoranti turistici, dove conta la velocità più che l'impiattamento, per fare ruotare velocemente i coperti?
Aragoste a Manhattan è il fantasioso titolo (che comunque ha un perché nell'evoluzione della storia) di La Cocina, adattamento di Alonso Ruizpalacios della pièce The Kitchen, di Arnold Wesker.

La traduzione del titolo originale in spagnolo è la chiave del racconto. Sono per lo più storie di migranti per lo più di lingua ispanica quelle che vengono raccontate, ma non solo. Seguendo inizialmente il primo giorno di lavoro di Estela (Anna Díaz) all'immaginario The Grill, veniamo catapultati in un crocevia di storie, un intreccio complesso di rapporti e di scontri di intenzioni dei personaggi. Ciascuno con un suo ruolo, una sua postazione a cui badare, del personale di sala a cui rispondere, i lavoratori della cucina stentano a sentirsi un corpo solo. Dimenticatevi la perfetta sincronia orchestrale di certe rappresentazioni delle cucine del fine dining. Anche quella è un'aspirazione a cui difficilmente si riesce a tendere. Qui non c'è neanche il tentativo.

La giovane messicana Estela non parla una parola d'inglese, cerca il suo contatto, il compaesano Pedro (Raúl Briones), e lo trova impicciato in una complessa e difficile rete di rapporti. Da un lato la relazione con la cameriera statunitense Julia (Rooney Mara) è a un punto critico, ma anche i rapporti con i colleghi sono tesi, specialmente con Max (Spenser Granese), l'unico madrelingua inglese della cucina, che da solo rappresenta l'insofferenza di una frangia di popolazione che si sente defraudata, non si sa bene di cosa. Persone che identificano gli Stati Uniti con l'America, alle quali Pedro ricorda con veemenza che "L'America non è una nazione", perché anche loro sono americani.
Le tensioni si accumulano, non solo per l'ossessivo ritmo delle ordinazioni del servizio, ma perché la sera prima si è scoperto un ammanco nella cassa, pertanto parallelamente vengono tenuti degli interrogatori per cercare di scoprire chi possa aver avuto l'occasione di trafugare il denaro. Tutti sono sospettati e sospettabili, perché tutti hanno bisogno, chi più chi meno.

Se la matrice teatrale è ben evidente dall'intreccio frenetico dei dialoghi, è anche evidente che Ruizpalacios riesca a trasformarlo in vero cinema, con una regia frenetica e nervosa, che riesce a trasmettere il convulso senso di agitazione dell'ambiente.
Se 140 minuti possono sembrare parecchi, lo è perché il livello di tensione è spesso insostenibile. Ma in fondo noi siamo spettatori, seduti nella nostra comoda poltrona. Lo scopo è farci comprendere quanto venga tirata la corda della fatica emotiva e fisica dei protagonisti.
Una corda destinata a spezzarsi, inevitabilmente. Lì Aragoste a Manhattan esagera, mettendo a dura prova la sospensione dell'incredulità.
Se prima lo spettatore si sente immerso, e anche un po' angosciato, dal frenetico ritmo con cui si è bombardati dall'intreccio drammatico, il finale parossistico ed esagerato sembra volerci distaccare.

Un distacco che molte volte è avvertibile anche dalle scelte estetiche, da un bianco e nero fin troppo studiato che non riesce a rendere vero quanto vediamo sullo schermo. Anche la disorganizzazione, il caos, lo sporco, non sembrano scaturire dal casuale svolgersi della giornata, ma da una mano curata e attenta, una sorta di impiattamento del brutto, che gli fa perdere verità e spontaneità.
Il cinema è finzione, lo sappiamo, e in questo caso è fin troppo evidente nella messa in scena.
L'ottimo cast, in tutti i ruoli, riesce comunque a far dimenticare l'estetica artefatta, riuscendo nell'impresa di farci appassionare a un microcosmo complicato, in equilibrio su gerarchie instabili e a volte inaccettabili, metafora del mondo odierno.
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