Il 29 gennaio 2024 Hind Rajab, una bambina palestinese di 6 anni, rimase intrappolata in una macchina crivellata da 355 proiettili insieme a parte della sua famiglia durante l’attacco da parte dell’esercito israeliano nella Striscia di Gaza. Nell’auto morirono tutti tranne lei, che riuscì a mettersi in contatto con il centro operativo dei soccorritori volontari della Mezzaluna Rossa palestinese per chiedere aiuto. Quella telefonata, in cui gli operatori cercarono di confortare la bambina nella speranza di ottenere un corridoio sicuro per far transitare un’ambulanza tra i bombardamenti, venne registrata e resa pubblica in rete. L’orrore di quel momento e il suo tragico epilogo sono stati raccolti dalla regista tunisina Kaouther Ben Hania, che ha inserito all’interno del suo film la vera voce di Hind Rajab.

È difficile riuscire a recensire un’opera come La voce di Hind Rajab poiché è evidente che il suo messaggio politico sull’attuale massacro palestinese è, sopra ogni cosa, una testimonianza storica dei tempi in cui viviamo: un pugno allo stomaco violentissimo, che fa male a chiunque lo guardi. Gli ultimi tragici momenti di Hind Rajab sono l’emblema di un orrore che travalica un giudizio estetico per diventare qualcosa di diverso, forse un’opera unica nel suo genere. La Mostra del Cinema di Venezia, in cui era in concorso, ha voluto premiare Kaouther Ben Hania con il Leone d’argento e non con quello d’oro, anche se al di là del premio (il film, prodotto da Brad Pitt, Joaquin Phoenix, Alfonso Cuarón, Jonathan Glazer e Rooney Mara, avrebbe avuto comunque una sua distribuzione) è più l’idea di che cosa abbia valore in un festival a essere rilevante.

Non che La voce di Hind Rajab non abbia meriti artistici, tutt’altro. Anche da un punto di vista squisitamente tecnico Kaouther Ben Hania, che è anche sceneggiatrice, dimostra di saper usare un materiale difficile da maneggiare senza retorica. La registrazione viene inserita all’interno del film, dove gli attori interpretano gli operatori che hanno assistito la bambina quel giorno, passando tra reale e irreale in modo funzionale sia alla narrazione che al messaggio. Non solo la voce degli attori lascia il campo a quella dei volontari, ma anche gli stessi volti vengono sostituiti da quelli reali, in un gioco che rompe la quarta parete e porta lo spettatore dentro il dramma. La frustrazione diventa il riflesso di due volti che si sovrappongono in una parete di specchi: quello di Umar, che vorrebbe far partire l’ambulanza senza dover aspettare la burocrazia infinita dei politici, e quello di Amir, che invece vuole tenere in sicurezza gli operatori sanitari. Quale sarà la scelta risulta inutile poiché l’ambulanza verrà fatta saltare in aria a pochi metri dalla bambina, che smetterà di parlare da lì a poco.

Kaouther Ben Hania conclude il suo racconto mostrando i filmati documentari delle lamiere dei due veicoli, uno esploso e l’altro crivellato di proiettili, e termina con le immagini della piccola Hind Rajab che gioca sulla spiaggia di Gaza. Nessun discorso retorico il suo, nessuna pornografia del dolore, ma una fotografia di un momento storico e di un senso di impotenza mondiale (e dello spettatore che vi assiste), perfettamente simboleggiato da una bambina che chiede aiuto a soli otto minuti dall’ambulanza che l’avrebbe potuta salvare.
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