Prologo

Il fiotto erompe da una nera burella che fende a mezzo un promontorio tondo. Scoppia ruggendo da un cunicolo di muratura. Rovescia nei gorghi un’onda immensa, uno sbocco, un conato, un flato puzzolente. I liquidi gli scarti le sporcizie della fortezza, dell’immenso edificio che soggioga il paesaggio. Arroccato su uno zoccolo di roccia circondato dall’esteso Lago. Ammantato di fetore e di nebbie. Il palazzo è affacciato da un lato su un’oscura limacciosa palude, piegato a defecare in quella gora. Le torri, le terrazze, le mura del Regno. Il luogo d’ogni senno, obbedienza e verità.

Il fiotto cresce, è un flutto, è una corrente. Tutta ingombra di barattoli, cadaveri, giocattoli; gonfia di sangue e di belletta e scatole. Tuona, e la risacca fa atterrire. È torbida di crani, di schiume e di bottiglie. Di cocci e di lamiere e di viscere e capelli. Ossa, cartastraccia, mobilio, cervelli. E gira e rotola e stipa l’immondizia; qui disfà il pattume, di là ammonticchia i morti, aggroviglia le cartacce, gli stracci, il vasellame, i frutti e i cibi guasti e i ferrivecchi e i corpi. Poi rovescia loro l’acqua sozza addosso, li trascina e li trangugia in una fossa. Un pozzo insondabile e vasto e stagnante.

Tutto finisce com’è incominciato. Tintinna una campana, la chiusa rumoreggia. Lenta si rinserra una gigantesca saracinesca. Lo scarico è sbarrato e la fortezza tace.

– Abbiamo ascoltata la parola del Regno – intona un uomo impaludato e armato fra decine che lo seguono dappresso. – Il Regno ci elargisce i suoi doni.

– Abbiamo ascoltata la parola del Regno – gli fa eco una folla miserabile e bruna. Poi che si spegne il ruggito dello scarico quelle genti compaiono sulle sponde dell’acquitrino. Gli sguardi rivolti alle mura sovrastanti: alte inaccessibili respingenti ostili. Inaccessibili incomprensibili per sempre. Gli occhi rapiti dalle grigie inferriate come, tuttavia, se ne scorgessero ne conoscessero un luminoso segreto. In quella altezza la nostra profondità. – Il Regno ci elargisce i suoi doni.

L’aurora è il calpestio dei loro piedi e bastoni, dei secchielli, delle pertiche, i setacci, i rastrelli: che affondano e trascinano e che smuovono la mota. Decine di stivali logori, di fasce, di ghette, di tomaie inzaccherate. L’aurora è un coro di affannosi respiri, di fiati soffocati da cappucci e respiratori. Da maschere da reti da cappelli e sciarpe e tubi e becchi contro febbri e veleni. Decine di cappe, di mantelle e scialli, di cerate incrostate, rattoppate, lise. Avanzano fra le zanzare e l’erba marcia e le canne nel sorgere del sole torrido sul Lago. E a parte quell’augurio, quel primo rapido, breve comando, si muovono in silenzio, si spostano in processione. Raggiungono le rive in ordinate fila. Scendono poi cauti, appoggiandosi, arrancando, dalle sponde sassose alla pozzanghera nera.

– Abbiamo ascoltata la parola del Regno. Il Regno ci elargisce i suoi doni.

La folla adesso cala giù nella fossa. Senza un ordine, né un cenno, uno sguardo o una parola si immergono fino alla vita, alle ginocchia, nei gorghi. Affondano i bastoni, gli scandagli, i guanti, raccattano con arpioni e con uncini e ganci i rifiuti che ancora galleggiano in superficie. Setacciano. Trovano. Scelgono. Raccolgono. Con attenzione e lentezza e devozione. Trattano ogni oggetto con infinita cautela, se lo passano di mano in mano, lo osservano, lo soppesano. Lo strofinano lo ripuliscono e lo ripongono nelle loro bisacce. E ognuno, in verità, ripete incessantemente a sé stesso: non è soltanto questo che facciamo oh voi ciechi, di più: lo indaghiamo, lo leggiamo. Il tanto faticar, che giova? Non è soltanto questo oh voi ciechi: lo interroghiamo. Non è soltanto questo: vaticiniamo. Ne traiamo auspici. Le minuzie, gli scampoli, le imperfezioni. Tutto.

Però solo i rifiuti ancora intatti. E il resto lo rigettano, lo scartano, lo lasciano affondare, lo lasciano marcire e putrefare all’aria. Con uno sguardo, dietro le lenti e gli occhiali e gli oculari, le fessure e il caucciù e le protezioni delle maschere, con una smorfia di diffidenza e di timore e di inganno. Non di repulsione per l’oggetto sporco, ormai inservibile e infetto e venefico, bensì di paura per l’oggetto maligno. Di disprezzo per l’oggetto contraffatto. Contrariati dall’oggetto rotto. Questa non è una sillaba del Regno, oscura benché rotonda e disgiunta ma intatta; questo è un errore e vanità degli uomini, è un pasto per i ratti, è una tana dei vermi, questa è una menzogna delle fogne e del Lago.

Invece i piatti, i vasi, le seggiole, le vesti, i nastri, i cappelli, gli abiti, gli ossicini, gli avanzi, i denti, gli escrementi, i corpi umani, le carogne di animale, se intatte le raccolgono, le conservano nelle secchie, le avvolgono nelle reti e le trascinano con sé. Questo oggetto potrebbe avere un significato. Il Regno ha rigettato questo oggetto, perché? Per ragioni imperscrutabili. A ogni modo cose morte sempre. Lise, estinte, esauste, consumate.

Questi vermi portatori di morbi. Potrebbero avere un elementare significato. Il Regno ha rigettato questo groviglio di larve, perché?Per ragioni imperscrutabili.

Questi zoccoli, unghie, queste zanne e molari. Queste pelli e questo cuoio capelluto. Potrebbero avere un ferino significato. Il Regno ha rigettato queste ossa. E questi corni e queste squame e questi grumi di peluria, perché? Per ragioni imperscrutabili.

Questo carcame di non so quale bestia. Questo scheletro intero, che sia d’uomo o di donna. Potrebbero avere un significato compiuto. Il Regno ha rigettato questo cadavere, perché? Per ragioni imperscrutabili. Tutto a galleggiare e rimpastato col fango.

Questa trottola potrebbe avere un infantile significato. Il Regno ha rigettato questi pattini, queste bambole, questo piccolo cavallo di legno, perché? Per ragioni imperscrutabili.

Questi allegri colorati vestiti. Questi involti di caramelle e dolciumi. Queste fiasche di animoso liquore. Queste prese di tabacco, queste scatole di sigari. Potrebbero avere uno schietto significato. Il Regno ha rigettato questi fischi, questi coriandoli e trombette, perché? Per ragioni imperscrutabili.

Queste posate. Queste coperte. Questo cesto da cucito. Questi armadi cassepanche e corredi. potrebbero avere un intimo significato. Il Regno ha rigettato questa culla e questo letto matrimoniale, perché? Per ragioni imperscrutabili.

Questo pitale. Quest’orinale. Questo feretro. Queste cassette e casseforti. Potrebbero avere un solenne significato. Il Regno ha rigettato questo catetere e questa bara, perché? Per ragioni imperscrutabili. Tutto a galleggiare e rimpastato col fango.

Questa coscia mordicchiata di pollo. Questi cavoli, e questa selvaggina. Questo pane, questa brocca d’acqua. Potrebbero avere un essenziale significato. Il Regno ha rigettato questo sale, questi mazzi di carciofi e di asparagi, queste calze e queste braghe di lana, perché?Per ragioni imperscrutabili.

Queste tazze e cucchiaini e teiere. Queste lauree lasciapassare diplomi. Questi cartoncini con su stampato un invito a nozze. Potrebbero avere un cortese significato. Il Regno ha rigettato queste parrucche e cravatte, perché? Per ragioni imperscrutabili.

Queste tende di seta, questi sedili di carrozza. Queste spille e monili e monete. Questi croci e aspersori, queste sciabole e coccarde. Potrebbero avere un maestoso significato. Il Regno ha rigettato questi scettri e ritratti, perché. Per ragioni imperscrutabili. Tutto a galleggiare e rimpastato col fango.

Ma là, su quelle rocce, c’è una ragazza che è ancora viva.

Minuta, emaciata, diciassette primavere, la pelle olivastra, butterata, graffiata. Capelli neri sudici. Sozza. Sguardo spento. Sa tutta di stallatico e di spirito e di sangue. Pareva un cadavere. Come gli altri. Come sempre. Piuttosto si è mossa. Un cadavere non è. Sussulta. Respira. C’è una ragazza che è ancora viva.

Chi la trova subito non ha le parole. Ecco, avverte gli altri agitando gli strumenti. Sventolando le reti e i fagotti e i sacchi mulinando i rastrelli e i rampini e le vanghe, percotendo come tamburi i bidoni, gli zaini, le latte e le borracce. Dimenandosi, saltando nei viscosi liquami. Ulula, chiama, ma non ha parole. Non ha parole per questo. Gesti inammissibili, inconsulti fra loro. Comunità di spalle chine e curve e di tacite e grigie e lente processioni. Che cosa c’è, cos’è successo, cosa vi atterrisce. Cosa vi sgomenta. Cosa vi allarma a questo segno fratelli. E tutti accorrono, le si raccolgono attorno. A falcate difficili nella mota. Arrancano nella fanghiglia, inciampano nelle buche. E la raggiungono. Attoniti a decine le fanno cerchio. Non hanno il fiato per questo. Dev’essere un prodigio. Si stringono, fanno ressa, si scavalcano per vedere. Per vederla.

– Questo è un ritrovamento che non ha precedenti. Questo è un recupero che non è mai stato dato.

Di fronte a quella giovane spezzata sui sassi, sporcata di morte ma che geme debolmente, che ansima, che si muove come invischiata in un sogno, priva di sensi, o addormentata, febbricitante nel delirio, prostrata che sia, tutto il resto perde senso e consistenza. Gli oggetti e i resti fino a lì accumulati, le cose strane che han riempiti i retacchi, le bisacce appesantite di intraducibili oggetti. Tutto riaffonda subito dimenticato, precipita giù nell’abisso viscoso coi rampini e coi setacci adoperati a raccoglierli. Per prendersi nuova cura. Per occuparsi soltanto di lei. Di lei. C’è una ragazza che è ancora viva.

– Oggi il Regno non ha gettato idoli. Oggi il Regno non ci ha inviato segni. Oggi il Regno non ha parlato per enigmi, non si è espresso in geroglifici, in simboli da interpretare. Non in lettere morte da riesumare e ricomporre. Oggi il Regno si è fatto cosa viva. Oggi il Regno ha un volto, oggi il Regno ha membra, oggi il Regno si incarna, oggi il Regno respira – dice l’uomo impaludato e armato.

– Gloria al Regno – gli fa eco la folla.

E in quanti possono sollevano la ragazza, l’abbracciano, la ripuliscono un poco, ci si provano a tenerla in piedi ma è davvero conciata male.

– Non può farcela così, fate piano – si rimproverano. – No. Osservate che ferite. Osservate che infezioni e che piaghe.

Le tolgono di dosso la palta grigia e pesante, le scrollano le membra, le sciacquano i capelli, le ravvolgono i pochi abiti lacerati e sozzi. Ché ciò che conta è che sia ancora viva. Tutti insieme la sollevano sulle teste. E fanno a gara a portarla in alto, a spalla, e litigano per questo.

– La porteremo tutti, com’è giusto. A turni. – Quell’uomo risolve. E imbraccia un lungo, bizzarro fucile e spara in aria una gragnola di colpi. L’eco non è dei pettrinali e gli archibugi: piuttosto uno schianto chimico, secco, sonoro.

– Ritorniamo ai Rifugi.

– Ai Rifugi. Ai Rifugi.

E si mettono in marcia.

Risalgono dalla pozza alle rive trascinandosi arrancando nell’untuoso brago nero. Si fanno largo fra il fogliame e le canne sempre portando la ragazza in alto, attenti a che non la taglino le foglie affilate attenti a che non l’imbrattino l’impiastriccino le bacche. Attenti a che le spine non la pungano o graffino. Già ridotta com’è. Allontanando gli insetti. Avanzano sui ciottoli, la sabbia, l’argilla attenti a non scivolare e non commettere passi falsi. Per non scuoterla, ancora, non strattonarla, ancora, non lasciarla cadere. Non di nuovo a terra e sulle pietre. E dalle sponde maleodoranti dell’acquitrino si inoltrano per cespugli, il sottobosco e le selve. Attraverso un più salubre cammino verso pendii di ginestre e di tufo. Di là dai boschi percorrono i campi, le fattorie, gli agglomerati di case, salgono per i villaggi abbarbicati e scendono per quelli incastonati nelle valli. Camminano instancabili in silenzio per miglia. Con il sole che gli sta alle calcagna irradiante dal binario delle ore. E tutti si sostengono coi medesimi pensieri.

Il mondo intanto si è levato dai letti, si è lavato e profumato e calzato e vestito ed è sceso ai propri affari in strada. Chi a schiavare e sollevare la saracinesca, chi ad allestire il bancone, chi ad aggiogare gli asini e i buoi, chi a far valige e chi a levare l’ancora. A fare battere allo stesso modo, per come sa farlo, per quello che può, il cuore in petto e la lingua sui denti e il denaro sulla tavola e in tasca. Ogni giorno allo stesso modo il Paese riprende a vivere. Per come si ha da vivere, cheto, senza troppe pretese. A mettere insieme la colazione e la cena e a nascondere le magagne. E soffocare gli entusiasmi. Questa nazione sotto lo sguardo del Regno. Questa nazione che obbedisce al Regno. Tutelata dal Regno. Senza comprenderlo, il Regno. È tutto qui. Noi soltanto ci interroghiamo sul Regno. Affondando in ciò che il Regno nasconde e raccattando ciò che il Regno rinnega. Noi destinati a ereditare il Regno. Camminano instancabili in silenzio per miglia.

E il mondo che si è destato e messo all’opera, ormai, già alacre nelle mediocri e immediate faccende, nelle urgenti importantissime commissioni che finiscono a quell’angolo di strada, in quel tratto di carrozza, in quell’ora di attesa, li guarda passare con disprezzo e ribrezzo. Mentre calpestano le colture ordinate e mentre sfilano nei sagrati delle chiese. Il contadino bestemmia, il sacerdote s’indigna. Mentre incrociano calessi passanti o s’alternano ai passaggi coi greggi di pecore. Né i pastori, né i braccianti, né i passeggeri né i vetturini però si fermano o si degnano di salutarli. Anzi guarda tu ‘sti straccioni. Anzi danno a intendere di ignorarli, e accelerano il passo, frustinano i cavalli, si allontanano e li allontanano il più possibile. E li spiano con sospetto marciare ai margini delle strade tenersi stretti ai fossi e le murate e le staccionate. Li guardano con disistima e con schifo, li trovano inopportuni e repellenti e bizzarri, li ascoltano incitarsi chiamarsi a vicenda con quelle loro soffocate voci, quei secchi intesi perentori comandi. O peggio non dirsi nulla ma ben intendersi lo stesso. Ma vedi guarda come trattano le donne. Con loro a mescolare nel fango. Ma vedi guarda, tu, che razza d’uomini. Ma vedi guarda come trattano i bambini. Con loro ad affondare nell’immonda sozzeria. Ma vedi guarda come vanno vestiti. Ma come puzzano. Straccioni. Non si lavano. Che cosa credono di trovare. Che cosa sperano nei rifiuti.

Noi destinati a ereditare il Regno. Si lasciano gli abitati alle spalle. Attraversano le periferie e le invettive e gli sguardi per tutto il giorno sotto il sole inclemente. Che alto ormai incendia le loro maschere, i loro tabarri stivaloni e cappelli. Che luccica sui neri, bruniti rastrelli che fiammeggia sugli uncini che si specchia nelle taniche. E lo stesso non si sbarazzano alleggeriscono dei paramenti, lo stesso non slacciano le fibbie e i bottoni, non sciolgono le bende, non allentano i lacci. Sudano soffrono nei loro scafandri, bagnano sporcano le vesti incrostate. A tratti affaticati rallentano. E lo stesso non si fermano. Non si fermano mai. Si danno più spesso il cambio per sorreggere la ragazza, cercano di passare per adombrati sentieri per strade dritte e ben tracciate e comode. Sotto il fresco degli alberi. Frescura che procurano per lei, di sé stessi non si curano. Cedono, si piegano sulle ginocchia. Boccheggiano, sopportano le vertigini. Vacillano, stramazzano svenuti. Ma ecco viene un altro a caricarsi di lei a sorreggere gentilmente le membra e il corpo di lei. Non si fermano però e non si sbandano mai.

– Ritorniamo ai Rifugi.

– Ai Rifugi. Ai Rifugi.

È il crepuscolo ormai.

Raggiungono, per sentieri che nessun altro conosce, baracche di lontano celate e insospettabili, capanne miserabili ma edificate con arte addosso al fianco giallo e friabile di colli. Gli ingressi sono bui. Accendono lanterne. Si inoltrano, con il lume alla mano, per scale ponti passatoie di legno che si torcono in un piatto ed eterogeneo labirinto, un alternarsi di tettoie e di strette a cielo aperto, corridoi, contrafforti, pavimenti d’assi, dislivelli scavalcati da pontili di legno. Scendono, risalgono, per passaggi attorcigliati, sempre più nel massiccio di quei colli di tufo. Portano la ragazza a passi lenti, con cura, ma fate presto e non perdete tempo. Vedete, vedete, vedete com’è ridotta. Ora l’abbassano per non urtare un soffitto, ora le fanno spazio per non strisciarla contro le pareti. Quindi i vicoli si allargano in piazze, in recinti, steccati regolari e quadrati. Quindi gli assiti e la terra battuta diventano infine pavimento lastricato. Quindi palafitte più solide e più alte, si moltiplicano le camere, i letti, le madie. Tetti e terrazze di cotto e di lamiere. Camini le cui canne irregolari si protendono verso l’alto si trasformano in ciminiere. E porte e cancelli che definiscono proprietà. Celle, camere, tribune, e intimità. Ma tutto diseguale materiale di scarto tutto fissato con fermi di fortuna. Tutto soggetto ai capricci del vento, alle frane della terra, le infiltrazioni dell’acqua, tutto morsicato dall’incombente logorio.

Ai Rifugi. I Rifugi.

Qui ci sono focolari e forni. Sacchi e anfore e botti e cassette. Qui ripostigli di suppellettili e utensili. Qui mattatoi per il macello degli animali, qui telai, c’è un falegname, c’è un fabbro. Qui botteghe e osterie e ritrovi con panche differenti e con stoviglie spaiate. Pignatte che borbottano, che profumano al fuoco, e formaggi e salumi e spezie ad essiccare. Qui ci vive un popolo. Dorme. Commercia. Si nutre, si educa, si regola, ci fa all’amore. Qui nascono i bimbi, seppelliscono i morti. Qui persone raccattano una vita di ciò che possono raccattare dal Regno.

Curioso è che le misere baracche si riempiono di oggetti impensabili e strani. Cornici d’oro attorno al muto tufo, stufe spente, tende e vetrate che non chiudono, però né decorano finestre. Armature sedute sopra scranni da chiesa, sciabole e alabarde raccolte in portaombrelli. Selle sulla schiena di nessun cavallo, ferri inchiodati a stivali e ciabatte, scrigni spalancati sulla polvere e sul vuoto e lingotti e monete, e lettere, e crediti, nelle gerle per la lana e gli scampoli e il cucito. Qui i passaggi fra una capanna e l’altra di queste cose si fanno angusti e impraticabili, scansie e comò ingombrano il passaggio. Tutto scostano con metodo e fatica perché lei passi oltre agevolmente, non incontri alcuno ostacolo chi la porta al momento. Tutto è rovinato e scolorito. Ai Rifugi. I Rifugi.

Qui è tutto ciò che questi uomini, queste donne, e i bambini quand’è toccato a loro, hanno raccolto negli anni, per decenni, rigettato nella gora nera. Da quando. Da sempre. Da quando esiste il Regno. Tutto ciò che ci ha lasciato, che ci ha detto il Regno. Tutto ciò che ha confermato, ha contraddetto il Regno. Tutti i messaggi che abbiamo ricevuto, tutti i segni, e i segreti, che continuiamo a interpretare. Tutti gli indovinelli che non sappiamo risolvere.

Ai Rifugi. I Rifugi.

La processione li attraversa per intero, tutto percorre quel precario dedalo. Da un canto all’altro non trascura baracca, non c’è un abitante che non chiami a raccolta. Infine s’arrampica su un’ultima palafitta dove tutto trova un ordine, un metodo, una logica. Casse di oggetti del medesimo tipo, scatoline per le piccole, per le fragili cose e gabbie e imballaggi per le grandi e le macchine. Scale ed etichette per raggiungerle e spostarle, trovarle, riconoscerle, censirle, inventariarle. Un metodo per non perderle e continuare ad accumularle. E qui, sul pavimento, al centro della stanza, un tappeto di pergamena colorato a metà. Scritto, redatto, ricoperto a metà di disegni e di cifre e di lettere e di geroglifici. Un garbuglio di matematiche, di poemi, di carte nautiche, un elenco non compiuto di nomi propri e di cose, di misure e definizioni e proporzioni e scale. Un sommario ritratto, un progetto abbozzato, un calcolo non ultimato, un problema irrisolto. Radici e percentuali e frazioni e decimali. Ma anche schizzi alla sanguigna libera. Qui i frammenti di un antico portolano, qui i ritagli delle tavole di un atlante. La copia di un affresco, un trancio di gazzettino, un francobollo, una tabella diligentemente tracciata col righello. Un libro mastro, un paesaggio, un arazzo, un ricamo, una lista della spesa, un abbecedario, un copione teatrale, un planisfero, un disegno naturalistico di piante, una stampa pornografica, un cammeo, un messale. Il disordine accumulato e arginato negli anni. Un balbettio ascoltato, enunciato ogni giorno. Ogni giorno corretto ricopiato annotato. Il testo scritto dettato nei decenni. Il grande trattato che un giorno avrà una summa, il messaggio che un domani, oggi, avrà un senso. Il grande, chiaro, indiscutibile disegno. L’evidente perfetto comandamento del Regno. Che ora forse ha acquisito un significato. Là, su quelle rocce, una ragazza che è ancora viva.

– Stendete la ragazza sul Mosaico.

E la fanno appoggiare su quel libro del mondo. Ora, sembra, ha riacquistato colore. Sali e composti le pungono le narici. Ansima, ha i brividi. Tutti le sono attorno. Prima un agitato poi profondo respiro. Rinviene, rinviene. Apre gli occhi finalmente.

Dove sono. Che cos’è successo.

La circondano boccagli e maschere, lenti, respiratori. Volti, no, lampade, fanali, meraviglia, sorrisi, becchi, sguardi. Stupore. E commozione. E lacrime. E terrore. E sudore. E saliva. E chiasso. E questo odore. Risa. Risa. Chi ride così? La sorreggono mani, l’accarezzano tenaglie, la sollevano guanti, l’abbracciano artigli. La stringono, la vogliono, l’aiutano. L’amano. Un umore vigoroso, caldo e corroborante, le attraversa e le incendia tutto il corpo. Una folgore le rischiara la mente.

– È così debole ed è così mal ridotta. Non può levarsi e non riesce a muoversi.

Ma vedo. Rinasco. Ho la forza di parlare. Ahio. No. Ho la forza di soffrire. Di ricordare quanto sto male. Oddio. È insopportabile.

– Chi siete? Dove sono?

– Rimuzzi. I Rifugi.

– Dove? Ri–cosa?

– Il tuo nome.

Ricordo.

Agnes, le fa eco la folla.

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