Carlo Cosolo è il responsabile dell’adattamento e del doppiaggio italiani di King Kong di Peter Jackson. Nato a Roma, dove lavora, Carlo ha cominciato ad adattare per il cinema all’inizio degli anni Ottanta, mentre alla fine di quello stesso decennio si è impegnato anche nella direzione del doppiaggio.

Fra i suoi lavori più recenti, le versioni italiane di film come Billy Elliott (2000) di Stephen Daldry, The Bourne Identity (2003) di Doug Liman, La maledizione della prima luna (2003) di Gore Verbinski, Prima ti sposo poi ti rovino (2003) di Joel Coen, Le cronache di Riddick (2004) di David Twohy, Ray (2004) di Taylor Hackford e Sin City (2005) di Frank Miller e Robert Rodriguez.

Gli abbiamo posto qualche domanda per saperne di più sulla sua attività, che permette a molti spettatori di godere appieno lo spettacolo di un film girato in una lingua diversa dalla nostra. Non abbiamo, poi, perso l’occasione di farci raccontare quanto gli spettatori del nostro paese vedranno e, soprattutto, sentiranno di fronte alla nuova pellicola del regista del Signore degli Anelli. 

Potresti spiegare brevemente in che cosa consiste il tuo lavoro?

 

Il mio lavoro consiste nel doppiare film stranieri, nella quasi totalità di lingua inglese. Significa che traduco e adatto il dialogo originale, poi seguo il mio copione in sala, dove avviene il doppiaggio vero e proprio, e infine assisto al mix del film. In altre parole faccio l’adattamento del copione e la direzione del doppiaggio, che comprende, per grandi linee, la scelta delle voci, la direzione artistica degli attori e, più in generale, la responsabilità del risultato complessivo. 

Come è nato l’interesse per la professione che hai poi intrapreso?

 

Io ho cominciato facendo l’attore, in teatro, prima e dopo l’Accademida d’Arte Drammatica Silvio D’Amico. Questo tra il ’73 e l’81, grosso modo. Da quell’anno in poi mi sono avvicinato al doppiaggio, ho scoperto una certa naturale predisposizione, e ho “usato” la mia formazione di attore per questo lavoro, cosa peraltro all’epoca ancora abbastanza normale. Un po’ meno oggi, visto che in Italia non so se ci sia neanche più il teatro… né la formazione in generale (forse). Vedo molta informazione (magari troppa: sarà per questo che non ci si capisce più niente!), molto varietà e reality show (ai quali non sono affatto contrario, ognuno guarda quello che vuole), ma poco rigore professionale in genere. 

Che tipo di formazione hai avuto?

  

Una formazione Barnabita. Scherzo, ma neanche tanto, visto che ho veramente fatto quasi tutte le medie e le superiori dai Padri Barnabiti, i quali mi hanno insegnato a studiare, principalmente. Poi che io abbia studiato più da adulto che da ragazzo è un altro paio di maniche. È però una formazione che mi è tornata utile nel mio lavoro, quando da doppiatore mi sono “riciclato” adattatore e poi anche traduttore di me stesso. Infatti, non tutti gli adattatori si traducono i loro copioni, per strano che possa sembrare. La maggior parte si occupano più che altro dell’adattamento labiale, che è sicuramente la base tecnica di questo lavoro, ma va anche, io credo, supportato da una lingua forte, espressiva, pronta a ricevere vita ed energia dall’interpretazione degli attori/doppiatori. Per quello che riguarda la mia “formazione” come dialoghista, è stata di tipo prettamente artigianale. Ho imparato dalla mia esperienza di doppiatore e dalla esperienza di dialogista di colleghi, in alcuni casi addirittura “maestri” più anziani: Fede Arnaud in primis, che mi ha scientemente dato insegnamenti come direttore e come adattatore, e poi Pierangelo Civera, Renato Cominetti, Rosalba Oletta, nomi forse sconosciuti ai più (come il mio del resto) ma, per la mia esperienza, vere e proprie pietre angolari. 

Ritieni che le scuole esistenti in Italia consentano di avere una preparazione adeguata ai futuri traduttori, adattatori e doppiatori (e, se no, che cosa suggeriresti)?

 

Non conosco queste scuole, ce ne sono?! Per quello che riguarda i doppiatori consiglio scuole di recitazione accreditate, e non fantomatici corsi di doppiaggio. Il doppiaggio è una tecnica che si impara praticando, non è difficile, basta avere senso del ritmo e buoni maestri. Fondamentale, quindi, lavorare solo con professionisti. È l’unico modo per imparare e può servire, anzi, a migliorare le proprie capacità di attore. Esattamente come serve fare teatro, cinema, radio e televisione. Esistono ancora, no? Lo stesso identico discorso vale per gli adattatori. L’ideale è essere ottimi traduttori e imparare la tecnica. Dopodichè sarà come tradurre un libro o un’opera teatrale, solo con regole diverse. Anche qui fondamentale avere buoni maestri. Ogni tanto mi viene voglia di tenere dei corsi o addirittura aprire una scuola, ma sono troppo pigro, astratto e preso dal mio lavoro per farlo. 

Oggi che sei un professionista stimato e affermato, che cosa ti piace di più del tuo lavoro?

 

Sarò molto sincero: la cosa che mi piace di più, anche perché è quella che mi sono più sudato, è avere acquisito una credibilità che mi dà la possibilità di lavorare con tempi e modalità accettabili. Non voglio dire ottimali, ma sicuramente superiori alla media. Questo proviene, evidentemente, non solo dalla mia professionalità, diciamo, ma anche dal fatto che, per mia fortuna, mi capita di lavorare su film con budget abbastanza elevati. Diciamo che è una specie di circolo vizioso: se sei accreditato fai determinati film, se fai determinati film sei accreditato. Ergo: una volta che sei riuscito a sfondare la porta tieni sempre duro, non mollare mai, non ti adagiare mai sugli allori, per quanto golosa possa essere la tentazione, e allora forse qualcosa continuerai a combinare. Diciamo che, in un modo molto perverso, è questo che mi piace del mio lavoro: per quanto puoi essere all’apice del successo, se non combatti quotidianamente, se non ti impegni sempre fino allo stremo, perdere tutto è un attimo. Non è terribile come sembra, è molto rivitalizzante, trovo.  

Com’è lavorare su un film come King Kong (cioè su un kolossal attesissimo, vincolato da regole strette per salvaguardare il prodotto, costretto in tempi estremamente ridotti)?

 

Spero di non sembrare troppo civettuolo se dico che lavorare su King Kong per me è come lavorare su qualunque altro film. Credo che sia la regola base per essere professionale: non prendere mai niente sottogamba, ma, nel contempo, non farsi mai prendere dall’ansia di dover fare bene. È anche vero, comunque, che è molto diverso, come metodologia, lavorare su un film che esce in contemporanea in tutto il mondo. Per esempio, un film che (come nel caso di King Kong) stanno ancora missando nella versione originale e lavorare su un film già finito e di cui hai in mano la versione definitiva. È l’era digitale che ci porta a questo tipo di lavorazioni: effetti speciali abbozzati, criptati, che vedrai nella loro versione definitiva solo al cinema. Del resto anche gli attori che girano il film recitano con “amichetti immaginari” (o nemichetti immaginari) che verranno disegnati solo in un secondo tempo. Siamo tutti un po’ dissociati, diciamolo. Però la fantasia aiuta. E molto. 

Potresti confrontare le modalità con cui hai operato su King Kong con, se esistono, modalità “normali” (per esempio, potresti confrontare il lavoro che hai fatto su La maledizione della prima luna con quello che hai svolto sul film di Jackson)?

 

Con King Kong il vero problema è stato che, dopo tre parti (circa 60 minuti) di film “normale”, con scene “normali”, recitate “normalmente”, sono iniziate due ore di azione e effetti visivi. Questo ha comportato il fatto che moltissime sezioni di dialogo sono state continuamente ritoccate fino alla versione definitiva, e quindi, anche noi in sala, abbiamo dovuto cambiare o aggiungere o modificare fino all’ultimo momento. Considerato che il doppiaggio non si svolge in una comune o un monastero dove siamo sempre tutti raccolti, vi lascio immaginare le difficoltà anche solo per raccogliere i doppiatori in tempi brevissimi e in una città caotica come Roma. Per La maledizione della prima luna il discorso è stato diverso. Il film era già pronto, ho scritto il dialogo, siamo andati in sala, e lì è iniziato lo sciopero dei doppiatori! Non vi so raccontare il clima di quel periodo, con la distribuzione (la Buenavista, in questo caso) in fibrillazione per il rischio di dover posporre l’uscita e i doppiatori in grande tensione per evitare episodi di “crumiraggio”, per usare una parola che non amo molto. Ogni lavorazione trova il modo di mettere alla prova le coronarie. Sto seriamente valutando la Legione Straniera, per rilassarmi un po’… 

Che impressioni ti ha fatto il film, mentre ci lavoravi sopra?

 

Quando l’abbiamo visto la prima volta con me c’erano Paolo Mangiavacchi, il dubbing manager della UIP, (la stessa persona che mi ha affidato Billy Elliot a suo tempo, e penso che per questi due film gli sarò eternamente grato) e mia moglie Andreina D’Andreis, che è la mia assistente al doppiaggio. Tutti e tre abbiamo avuto la stessa impressione: kolossal puro! Un film di tre ore che ti tiene in tensione sia pur visto in bianco e nero, con molte parti disegnate e moltissime parti o mancanti del tutto o criptate, oscurate, per l’antipirateria. Questa è stata la prima impressione che si è andata via via confermando nel tempo. 

Confrontando queste tue prime impressioni con quelle che hai ricavato dalla visione in qualità di semplice spettatore, che cosa puoi dire?

 

Dico solo che le mie prime impressioni si sono confermate: è un film di tre ore che riesce a tenerti inchiodato alla sedia dall’inizio alla fine. Soprattutto alla fine. È intrattenimento puro, una festa di fotografia e montaggio. Tutto questo però a una condizione: che ci si ponga di fronte a King Kong (parlo del film, non dello scimmione) con l’innocenza che può avere un bambino, anzi un bambino australiano. Tra l’altro è uno spettacolo che credo possa entrare di diritto nella categoria “fantascienza classica”, proprio per questo, per il sense of wonder di cui è permeato, per il suo appellarsi alla suspension of disbelief, la volontaria sospensione dell’incredulità cui fa riferimento Coleridge. E con questo voglio sottolineare anche l’aspetto poetico della storia di questo gorillone di otto metri. 

Domanda vagamente provocatoria… Lo spettatore (esperto di traduzione, adattamento, direzione di doppiaggio) Carlo Cosolo che impressione ha ricavato dal lavoro del professionista Carlo Cosolo?

 

Prima di tutto io non sono esperto di niente. E non lo dico per una forma di falsa modestia, ma perché ho la consapevolezza che tutto quello che faccio è in gran parte frutto dell’esperienza e, soprattutto, istintivo. E con questo non voglio sminuire me stesso o quello che faccio, sia ben chiaro, non rientra nel mio personaggio, per così dire. Ma, proprio per meglio inquadrare il mio modo di lavorare, è bene chiarire per l’ultima volta che non ho una formazione accademica, per quello che riguarda la traduzione in particolare, ma è un po’ come se facessi il pane. E scusate se è poco. Non sto, comunque, cercando di eludere la domanda, anche perché la risposta è abbastanza semplice: l’impressione che ricavo dalle cose che faccio è, in generale, buona, e migliora con l’andar del tempo. Non perché l’invecchiamento di per sé produca qualche miracoloso effetto benefico, ma semplicemente perché tanto più mi allontano dalla versione originale, tanto più riesco ad apprezzare il mio lavoro. Per me la fase più dolorosa, se vogliamo usare questo termine, è durante il doppiaggio, quando cerco di avvicinarmi il più possibile alla recitazione e alle sonorità della lingua originale. E questa approssimazione non sempre riesce a farsi piccola piccola. Una volta completato il processo, se non trovo errori di traduzione gravi, e qualche sciocchezzuola che avrei potuto migliorare la trovo più o meno sempre, inizia il lento ma inesorabile distacco dal film com’era e, a quel punto, comincio ad apprezzare il film come è diventato. Per King Kong in particolare mi sento tranquillo, diciamo. È stata una lavorazione travagliata per l’imminenza dell’uscita, ma, nonostante questo, alla fine mi pare ci sia tutto più o meno come ci doveva essere. Va anche detto che, obbiettivamente, non è un film dove il dialogo è l’elemento preponderante, come tutti avranno già potuto evincere da quello che è stato detto finora, se non, addirittura, dalla visione del film stesso. 

Puoi accennarci su quali pellicole lavorerai nell’immediato futuro?

 

Questo è un discorso rischioso, perché qui le cose cambiano da un giorno all’altro. O almeno così mi piace pensare, mi dà la sensazione di vivere pericolosamente. Comunque, in questo momento sto adattando un film di John Turturro, Romance & Cigarettes, distribuito dalla Nexo. Un film molto carino, prodotto dai fratelli Coen, dei quali ho diretto Prima ti sposo poi ti rovino, che si dimostrano, ancora una volta ispiratori assoluti del Turturro regista. Bello. E difficile. E poi dovrebbero arrivare i due attesissimi sequel La maledizione del forziere fantasma e Sin City 2.