Passioni di una vita, amore, amicizia, morte, sacrificio, studio matto e disperatissimo. 

Si potrebbe riassumere così Si alza il vento, l’ultimo lavoro di Hayao Miyazaki, ispirato all'omonimo romanzo di Tatsuo Hori di cui il co-fondatore dello Studio Ghibli aveva già realizzato un manga alla fine degli anni 80. 

C'è una specie di dedica intrinseca all'autore Hori in questo film, perché citando la frase di Paul Valéry "Le vent se lève, il faut tenter de vivre" (Si alza il vento. Dobbiam provare a vivere), poi tradotta in giapponese "Kaze tachinu, iza ikimeyamo" dallo stesso autore, Miyazaki cerca di unire le due personalità, quella dell'ingegnere e quella dello scrittore, in un unico personaggio, Jirō per l'appunto.

Il giovanissimo Jirō e l'ingegner Caproni
Il giovanissimo Jirō e l'ingegner Caproni
La storia di un ingegnere aeronautico non ha molto di fantastico, soprattutto se i momenti salienti della sua vita si sono svolti a cavallo tra due guerre, e soprattutto pensando a quanto fu dannosa la Seconda Guerra Mondiale; eppure, quando di mezzo c’è Hayao Miyazaki che ha sempre espresso la propria opinione assolutamente negativa rispetto alla guerra, ma non ha mai fatto mistero della propria passione per gli aerei, gli idrovolanti e i velivoli in genere, tutto si mette in discussione, e a proiezione conclusa rimane un po’ di amarezza per il mancato Oscar del 2013, sapendo anche che probabilmente si tratta del suo ultimo lavoro. Il primo, tra l'altro, tratto da una storia vera, con personaggi realmente vissuti.

Il modellino di carta...
Il modellino di carta...
Il film si apre con la decisione del piccolo Jirō di dedicare la propria vita alla costruzione degli aeroplani, consapevole di non poterne mai pilotare uno a causa della propria miopia; ma sarà un grande ingegnere aeronautico, visto che frequenterà l’Università Imperiale di Tokyo e presto verrà assunto per lavorare agli aerei da guerra perché è considerato un prodigio.

Jirō non trova ostacoli, e a quanto sembra nemmeno nemici sul lavoro, perché è una persona buona, semplice, altruista e coraggiosa. Tanto che, sullo sfondo del terribile terremoto di Kanto del 1923, non esita un momento a soccorrere due giovani incontrate sul treno. Forse lo sa, o forse lo ha solo percepito, ma da quel momento la propria vita cambierà, come anche quella della giovanissima Nahoko. Quantomeno, le due vite resteranno collegate, e al resto ci penserà il Destino.

A fare da sfondo alla grande mente creativa e ingegneristica di Jirō c’è, purtroppo, il passaggio dall’era Taisho (democratica) a quella Shōwa (militarista), la Grande Depressione degli anni Trenta, le due guerre mondiali e, appunto, il terribile terremoto di Kanto. Il Giappone era ancora molto arretrato e povero, c’era molta sofferenza, e il giovane Jirō non rimaneva indifferente a tutto questo, già solo nel mantenere uno stile di vita sobrio e frugale. 

L’abilità di Miyazaki è proprio qui, nel saper mescolare la vita privata di Jirō con le vicende storiche ma soprattutto, oltre a saper dosare opportunamente scene molto tecniche con altre più quotidiane, usando uno stratagemma geniale che, inframezzando la storia, riesce ad alleggerirne la serietà, senza comunque impedire allo spettatore di riflettere: attraverso i sogni, infatti, il regista riesce a dare voce all’interiorità di Jirō, rendendo questo protagonista al massimo dell'espressività. 

Il sogno è il momento dell’incontro con il suo mentore spirituale, l’ingegnere Giovanni Maria Caproni, a cui Jirō è molto devoto e almeno in sogno può confrontarsi con lui e discutere sia di volo, di aeroplani, ma Miyazaki ne approfitta anche per lanciare profondi messaggi antibellici, ben armonizzati con lo spirito e i personaggi che li esprimono. Si alza il vento non è un fantasy, dunque, e non ha nulla di “fantastico”, ma la componente onirica riesce a contribuire a dare quell'atmosfera magica immancabile anche nei film più duri del cineasta nipponico.

Jirō e Nahoko
Jirō e Nahoko
Si alza il vento riesce inoltre a essere un film corale, in cui si percepisce molto il concetto di comunità, decisamente spiccato nella cultura giapponese. Jirō si rende subito una presenza fondamentale all’interno dello studio di progettazione, eppure nonostante l’affermazione professionale e il rispetto che ottiene durante i viaggi di lavoro, non dimentica il migliore amico e collega di una vita Honjou, e sembra quasi non prendersi mai i propri meriti, perché è troppo concentrato a risolvere problemi, a trovare soluzioni per migliorare, lavorando instancabilmente anche quando la vita personale potrebbe prevalere. Ma la passione per il proprio lavoro, la missione che sente su di sé non vengono mai meno, e in qualche modo lo sostengono per tutta la storia. Al tempo stesso l’arrivo di Nahoko è un ulteriore arricchimento per la propria esistenza tanto che solo dopo il fidanzamento e il matrimonio progetterà il caccia da combattimento più importante della propria carriera, lo Zero. 

La giovane, ormai donna, completa Jirō dove nessun altro riesce, e gli resta accanto in modo struggente, profondamente romantico, con una delicatezza che è raro trovare rappresentata nella cinematografia attuale. Miyazaki insiste moltissimo su questa parte, regalandoci momenti di profondo romanticismo. Non vi anticiperò altro, il solo consiglio è di non perdervi questo film e di osservare.

Il merito di Hayao Miyazaki è quello di aver saputo raccontare una storia drammatica con delicatezza e poesia, mostrando la sofferenza di un popolo, l’impegno di chi in qualche modo lavorava alla sua difesa, insieme ai sogni e ai progetti di vita di uomini e donne comuni, nella loro quotidianità, che a modo loro hanno saputo realizzare cose grandi, anche solo per qualcuno.

Se la storia è complessa, intensa, drammatica, non di meno sono la sceneggiatura, la fotografia, e la colonna sonora. 

Lo spettatore non potrà che restare colpito (per non dire estasiato) dalla quasi maniacale attenzione al minimo dettaglio, all’accuratezza dei testi manoscritti, dei disegni tecnici, la caratterizzazione di ogni singolo personaggio, della cura con cui viene proposto ogni fotogramma, ogni dettaglio, tutto. Una nota particolare meritano i paesaggi naturali, le grandi distese verdi, il cielo anche nei momenti più tragici, i boschi, che si stagliano sullo schermo come immense tele ad acquerello.

Per quanto riguarda la colonna sonora il maestro Joe Hisaishi, eterno braccio musicale di Miyazaki, forse ha superato se stesso. Un mix potente in grado di richiamare atmosfere popolari, militari, romantiche, adatte a ogni passaggio geografico in cui si trova Jirō (che volerà persino in Germania), esplodendo in sinfonia al momento opportuno. Molto piacevole anche il tema musicale, Hikōki-gumo, interpretato dalla cantautrice Yumi Arai che chiude, con una delicatissima ballata accompagnata dalle immagini dei luoghi salienti della storia, un film da Oscar. Se i personaggi non parlassero, basterebbe la musica ad accompagnare le immagini. Questo è indubbiamente uno dei grandi meriti del cinema di Miyazaki, per non dire una preziosa caratteristica.

Jirō e Kayo
Jirō e Kayo
Per quanto riguarda l’adattamento italiano il discorso si fa complesso.

Il film è ambientato negli anni ‘20 ed è lampante, come anche in Principessa Mononoke, l’intenzione di Miyazaki di mantenere un registro particolare con cui far dialogare i personaggi. 

Un’intenzione che con l’adattamento, sempre a cura di Gualtiero Cannarsi, oggettivamente non si perde. La traduzione è praticamente letterale, e quindi anche in questo caso lo spettatore si troverà di fronte a costrutti complessi, termini desueti, frasi che lo lasceranno un po’ perplesso e che alle orecchie stoneranno, talvolta. Una sorellina che dà del voi al "Secondo Fratello", una Nahoko che chiama l'innamorato e poi marito "Signor Jirō", un "apparecchio ammirevole", o "mi concedo di accettare" una proposta di matrimonio.

Ci si chiederà più volte se veramente non avrebbe potuto esserci un modo non troppo “stravolgente” in grado di mantenere fedeltà con l’originale, senza risultare strano a un pubblico del XXI° secolo. A quanto pare una scelta “a senso” avrebbe snaturato la resa del film. Probabilmente se Miyazaki ha fatto dire “aspetto ardimentoso” o "com'è dignitoso" non c’era altro modo per tradurlo, altrimenti chi ha scritto i dialoghi originali avrebbe usato esattamente quel termine anziché quello che ascoltiamo tradotto oggi.

Jirō Horikoshi
Jirō Horikoshi
Un'altra annotazione è relativa al cast di doppiaggio: ottima la prova di Emiliano Coltorti nel prestare la voce a Jirō, Massimo De Ambrosis è perfetto per interpretare Honjou, come anche Rosa Caputo è in parte per Nahoko, e non stona Angelo Maggi per prestare la voce all'ingegner Caproni. Si tratta di un cast di doppiatori professionisti, nulla da eccepire. Tuttavia è quasi spontaneo notare che nella versione inglese in cui Joseph Gordon Lewitt è stato scelto per Jirō, Emily Blunt per Nahoko e Stanley Tucci per Caproni, sembra esserci stata una chiara intenzione di dare maggiore risonanza a questo film. Cosa che in Italia poco è successo.

I punti sono due. Paga questo tipo di scelta a una fedeltà dura e pura? Di conseguenza, bisogna fare una seconda scelta, non indifferente: a chi si vuole rivolgere la cinematografia dello Studio Ghibli? Ai puristi o a un pubblico più ampio? E ancora: necessariamente sarebbe una perdita di qualità sulla resa? Si riuscirà a far capire al pubblico questo lavoro di adattamento così meticoloso? La sentenza è ardua e si potrebbe lasciar decidere il pubblico, ma forse permettere allo stesso di poter trovare un film così atteso, così meritevole di attenzione per soli quattro giorni e a orari discutibili, senza fare molto per divulgare una “cultura del cinema dello Studio Ghibli” forse renderà il tutto una battaglia senza vincitori né vinti, un po’ come succede in tutte le Guerre Mondiali. Anche se, quando si parla di arte, il dubbio che prevalgano gli sconfitti resta sempre.

Maria Cristina Calabrese

Voto: 4/5

Jiro Horikoshi, nato a Fujioka nel 1903, sogna di volare e di costruire aerei. Purtroppo è afflitto da una grave miopia, che gli preclude la possibilità di diventare pilota. Ciò non gli impedisce, grazie alla tenacia e determinazione, di realizzare il suo sogno: diventare ingegnere aeronautico, seguendo le orme del famoso Gianni Caproni, ingegnere aeronautico e fondatore della scuola di aviazione omonima. Jiro nel 1927 entra a far parte della Mitsubishi e dopo vari successi progetta quello che sarebbe diventato il più conosciuto velivolo giapponese nella Seconda Guerra Mondiale: il caccia Zero.

Partito dalla città di origine, si trasferisce a Tokyo per frequentare l’università. Sul treno che lo porterà a destinazione incontra l’amore della sua vita, la piccola Nahoko, ancora bambina. A rendere le cose più emozionanti ci pensa il terremoto di Kanto (del 1923). I due si separano, ma dopo dieci anni si rincontrano e finalmente scocca ciò che era in nuce. Come è ovvio nei melodrammoni, la giovane fanciulla è malata gravemente di tubercolosi, debole, fragile, neanche si fosse chiamata Mimì e avesse avuto la tisi, ha bisogno di cure costose lontano da casa, in Svizzera. Il sentimento è più forte della malattia e per unirsi nel sacro vincolo del matrimonio e nell'estasi suprema che è propria dell'idillio dell'amore, la fanciulla scappa dall’ospedale, raggiunge Jiro, ospitato dal generoso datore di lavoro, che consacra l’unione.

Come da manuale, Nahoko muore, Jiro rimane fedele al ricordo della sposa, che lo aspetta nell’alto dei cieli per volare insieme (a questo punto sarebbe stato d’uopo un sottofondo musicale di Cocciante o De Gregori). Ecco a grandi linee la trama di questo molto lungo metraggio del maestro giapponese, che stavolta si è disciolto in 126 minuti di ridondanze, salti di linee temporali (se ne incrociano tre: i sogni di Jiro che hanno come presenza fissa Caproni, il maestro e mentore ideale; la vita quotidiana; le riunioni tecniche), ripetizioni. Il film sembra un forzato lascito di un professionista, identificatosi col personaggio amato, che suo malgrado lascia il campo, volendo dispensare morale, sottolineando quanto sia necessaria la costanza e l’abnegazione assoluta (come ho fatto io sembra voler dire, ma queste sono solo sensazioni), per raggiungere risultati di successo.

Il titolo del film si rifà a un racconto di Tatsuo Hori, che a sua volta si era ispirato a una poesia di Valéry, ripetuta più volte gratuitamente nel film, quasi a voler sottolineare di quanta cultura siano infarciti i personaggi. Le immagini, tecnicamente perfette, forse sono un po’ laccate e quindi contrastanti con il tema trattato. Vero è che quelle più cherry appartengono alla parte onirica, ma lo stile è quello e non si scappa. Altro problema non di poco conto, non attribuibile allo Studio Ghibli, è la traduzione che assomiglia a un italiano maccheronico degli inizi del secolo e al doppiaggio sospirato che aggrava il drammone degno di Francesca Bertini.

Non si può dire che il film sia riuscito e non per la storia difficile, amara, il prodotto il sé non funziona: i personaggi, quello della moglie per esempio, è abbozzato, alcune figure sono dei cartoncini, insomma c’è molta carne al fuoco, nessuna veramente cotta.

Piacerà agli amanti acritici di Miyazaki.

Letizia Mirabile

Voto 2/5