Una città. La Città. Enorme e decadente, nata sul mare, è stata distrutta più volte nei secoli, è ricresciuta strato su strato sulle proprie rovine e ancora una volta sta affrontando il declino.

La Città ha divorato ogni cosa – dentro e fuori da sé – per sottomettere popoli, occupare terre e produrre soldati.  Ha reso deserto ciò che prima era verde e produttivo, ma la sua guerra non finisce mai: tutti i cittadini, uomini e donne al compimento del sedicesimo anno di età, sono chiamati a combattere e a morire per il suo insaziabile desiderio di conquista.

Dentro la Città, chiuso nel proprio palazzo da tempo immemorabile, si annida come un ragno l’Imperatore: in pochissimi lo hanno visto di persona, forse esiste da sempre, forse è qualcosa di più che umano. Al pari della sua corte. 

Per sfuggire a tutto questo l’unico modo è nascondersi nelle fogne, l’altra città sotto la Città, ugualmente in rovina, dove lottano per sopravvivere gruppi sparuti di predoni e fuggitivi, dove arriva ogni tipo di rifiuto, dove l’acqua irrompe a volte con furia mortale. E’ qui e nei campi di battaglia intrisi di sangue che nasce l’idea dell’unica soluzione possibile per porre fine all’eterno massacro: uccidere l’Immortale.

Stella Gemmell – moglie di David Gemmell (1948-2006) – è l’autrice di La città perduta d’avorio e d’argento (The City, 2013), romanzo pubblicato in Italia nell'agosto 2014. La Città in questione non è perduta, bensì tristemente conosciuta da tutte le “minoranze etniche” che ha attaccato e cercato di fagocitare. Di avorio e di argento ce n’è ben poco. 

La Città – un archetipo intenzionalmente senza nome – è sia protagonista che ambientazione e crea una sorta di Ghost in the Machine fantasy, dove un guscio labirintico e fatiscente è infestato, per dirla alla T.S. Eliot, dalla “morte per acqua”. Le acque inesorabilmente ne erodono i livelli più bassi, impregnano i muri e salgono in superficie, invadono tanto le abitazioni fatiscenti quanto il Palazzo Rosso imperiale.

La Città potrebbe essere ovunque, ma vengono in mente la New Crobuzon di China Mièville, le costruzioni stratificate nei millenni di Steven Erikson, lo sfacelo della Roma tardo imperiale e, sopra ogni cosa, la Costantinopoli dell’Impero Bizantino, con la sua burocrazia mastodontica, i mille funzionari inutili, la strutturazione dell’esercito, l’imperatore divenuto un dio. O un “arcangelo”. 

Della Città abbiamo una visione complessiva intuitiva: il world building ci mostra le parti funzionali alla storia, ovvero le Caverne sotterranee (le fogne), alcuni quartieri – Serafinia, dimora delle ville dei potenti, Birmano e i suoi mercati, lo squallido Lindo con la Casa del Vetro e i gatti albini, i floridi Otaro e Gervain – i campi di battaglia, gli accampamenti dei soldati e alcune delle porte nelle mura, distanti una dall’altra almeno una mezza giornata di cavallo.

In questi luoghi si muovono i protagonisti – adulti e bambini – fra combattimenti, intrighi, assassinii politici, desideri di vendetta, storie di lealtà, onore e cameratismo.

Fantasy epica ma anche Military Fantasy: battaglie campali, tattiche e schieramenti oltre che duelli corpo a corpo descritti nei dettagli, senza splatter, ma con una lucidità chirurgica. Le parti in lotta  sono indicate con i loro colori: Pelleblu, Rossi, Grigi, Neri (e questo è molto bizantino). Alla fine di ogni giornata, tuttavia, “tutto è coperto dal colore del sangue”.

La città perduta d’avorio e d’argento è anche un Low Fantasy, dove l’elemento magico affiora appena e per questo dà la sensazione di essere terribile. Chi sono veramente i Serafini, con i loro occhi neri alieni? E perché i soldati della Città, almeno quelli col nome delle Sette Famiglie, muoiono un po’ meno degli altri e guariscono dalle ferite un po’ più facilmente degli altri?

Il romanzo è complesso. Ha una trama non lineare con flashback a incastro e vari punti di vista parziali. Un ritmo irregolare: azione velocissima alternata a momenti in cui il tempo sembra sospeso, brusche sorprese che arrivano addosso come una doccia fredda, seguite dalla descrizione quasi lirica dell’ambientazione. 

Nel complesso, una narrazione a tratti apparentemente sfuggente e involuta, a un filo dal provocare un senso di insoddisfazione. Alla fine “quasi “ tutto viene spiegato e “quasi “ tutti i destini si compiono, ma rimangono abbastanza elementi in ombra da far desiderare - e ipotizzare - un seguito.

Tuttavia, alla faccia dell’elenco dei punti deboli, quello che Stella Gemmell ci offre è un romanzo ad ampio respiro, pieno di ombre, misteri e realismo disincantato, con quel particolare tono sommesso che esplode quando meno te lo aspetti e per questo capace perforare l’immaginario del lettore. 

Aspettiamo con ansia il seguito, i sopravvissuti all’ultima battaglia sono sufficienti a garantirlo.