Poco più tardi, Suria accese una torcia elettrica. Un cono di luce squarciò le tenebre, illu­minando la roccia umida del suolo. Si avvicinò alla parete ed estrasse dalla tasca un foglio di carta ingiallito. Osservò le incisioni sulla pietra e annuì con espressione severa.

«Siamo quasi arrivati. L’uscita è vicina.»

Un gemito ci aggredì alle spalle. Spalancai gli occhi e mi strinsi alla vita di Suria, treman­do come una foglia.

«I mostri» sussurrai appena.

Più volte avevo sentito dire che, oltre il fiume, c’era solo il buio popolato da mostri pronti a uccidere chiunque si fosse avvicinato. Feci per chiedergli spiegazioni, ma lui mi anticipò.

«I Guardiani ci hanno trovati.»

La sua voce tremava, le sue pupille si muovevano impazzite. Quando alzò una mano e illuminò lo spazio dietro di noi, il terrore si materializzò nel suo viso.

Un essere alto più di due metri, che non aveva nulla di umano, ci stava fissando. La pelle era ricoperta da una sostanza gelatinosa, il volto era privo di lineamenti, di bocca e di naso. Nel viso spiccavano solo due voragini scure, illuminate da un riflesso di luce.

Fu allora che vidi le sue braccia. Lunghe fino ai piedi, terminavano con tre artigli acu­minati e adunchi.

«Via! Via di qui» urlò afferrandomi per un braccio.

Mi trascinò in quell’oscurità fitta, mentre la pozza di luce della torcia illuminava fre­neticamente il cunicolo che avevamo imboccato. Era un pertugio stretto, l’aria sapeva di marcio e il pavimento era un acquitrino puzzolente.

I latrati delle bestie rimbalzavano tra le pareti e parevano provenire da ogni direzione.

«Non ce la faccio più» gemei, iniziando a singhiozzare. Il cuore mi martellava nel petto e mi mancava il fiato.

Suria mi alzò di peso e continuò a correre, finché non giunse davanti a un groviglio di radici melmose. Mi posò a terra, quindi le divelse con furia, rivelando una porta d’acciaio. Dietro di noi, lo stridore degli artigli delle bestie si faceva sempre più intenso.

«Ci siamo, siamo arrivati» ansimò. Prese una chiave e la infilò nella serratura.

Appena la porta si socchiuse, Suria mi spinse dentro. Fu allora che udii un rumore sordo alle mie spalle. Un rantolo sommesso, un gemito di dolore. Poi sentii il cigolio della porta che si chiudeva di botto.

Silenzio.

«Papà?» sussurrai un minuto più tardi, dopo aver ripreso fiato.

Nessuna risposta.

«Papà?» chiamai con più convinzione. Tastai il terreno nel buio e trovai la torcia.

Rimasi a bocca aperta, sconvolta, non appena la accesi. Suria era seduto davanti alla porta, il volto chino sul petto.

«Papà» urlai gettandomi su di lui. Al centro della maglia si stava allargando una chiazza scura.

Suria alzò la testa, strinse gli occhi e si morse le labbra. «Piccola mia, ce l’abbiamo fatta.»

Mi guardai attorno, illuminando rapidamente il luogo dove eravamo finiti. Era una ca­mera stretta, scavata nella roccia. In fondo c’era una scala a chiocciola di ferro arrugginito.

«Quella è l’uscita» indicò. «Sali senza mai guardarti indietro. Arriverai in superficie. Nel mondo reale.»

«Il mondo reale?» ripetei disorientata.

Mi porse la mappa. «Qui troverai le indicazioni per uscire dall’Acropoli delle Ombre. Una volta fuori, segui il sole.»

«Il sole?»

«Sì, quello che hai disegnato così tante volte. A quest’ora sarà basso nel cielo, è quasi il tramonto. Seguilo, continua verso ovest, non fermarti mai, neppure per un attimo.»

La sua voce era sempre più flebile, quasi un sussurro. Sentii un brivido corrermi lungo la schiena.

«Tu… tu non vieni con me?»

«No, piccola, non vengo.»

«Non vado da nessuna parte senza di te» urlai, scoppiando di nuovo a piangere.

Suria mi afferrò per le spalle, mentre il sangue gli bagnava le labbra e il mento. «Non capisci? Ho fatto tutto questo per te. Per trovare l’unica in grado di annullare tutto questo male.»

«Devi venire anche tu! Non ti lascio qui!»

«Promettimelo, non ti voltare neppure per un istante.»

«Papà, ti prego!»

Suria prese un involucro dalla tasca. Tolse il panno che lo ricopriva e mi porse una colla­na che terminava con un pendente di cristallo. Scosse la testa, inspirando profondamente.

«È incrinato, maledizione!»

«Incrinato cosa?» chiesi ancora più confusa.

Me la appese al collo e mi carezzò una guancia. «Quando giungerai a Synapsis, chiedi della Magistra. Fatti portare da lei.»

«Papà! Non so dove andare. Synapsis… Magistra… non so chi siano!»

«Non c’è più tempo, tesoro. Promettimi che lo farai.»

«Insieme.»

«Promettimelo, Ayon, promettimelo» esclamò con voce soffocata.

Annuii lievemente, sentendo la presa delle sue mani farsi sempre più debole.

«Ti voglio bene, piccola.» Suria chiuse gli occhi e si accasciò a terra.

«Papà?» chiamai dopo qualche secondo, quando riuscii di nuovo a parlare. «Papà?»

Gli toccai il volto e mi alzai inorridita appena compresi ciò che era successo.

Mio padre era morto.

Che stupida! Non dovevo pensare quelle cose orribili. Forse si era solo addormentato perché era stanco. Aveva corso nel buio con me in braccio. Sì, si stava riposando, poi si sarebbe svegliato. Era questione di minuti. Non dovevo disturbarlo. Giusto? Eppure non sembrava che respirasse. Il suo petto non si muoveva.

Un colpo seccò mi destò da quel vortice di pensieri. I mostri erano giunti fino alla porta e la stavano sfondando.

Promettimelo, Ayon, promettimelo!

Una forza che neppure pensavo di possedere mi fece scattare in piedi. Salii le scale a chiocciola senza guardarmi indietro, con gli occhi velati dalle lacrime. Percorsi decine e decine di gradini, ignorando il bruciore alle gambe che mi imploravano di fermarmi, di riposare, di riprendere fiato.

Te lo prometto, papà!

Poi vidi un bagliore, una fessura in alto da cui filtrava una lama di luce. Quando uscii, crollai a terra, ansimante. Pochi secondi e mi rialzai di nuovo in piedi.

Attorno a me c’erano solo pietre, sabbia e colonne spezzate, avvolte in una nebbia densa e grigia. Aprii la mappa e vidi un percorso segnato sul foglio. Riconobbi le pietre, seguen­do le indicazioni senza sapere dove mi avrebbero condotta.

Giunsi davanti a una rete alta più di cinque metri. Il disegno indicava un varco nella recinzione: lo trovai e mi ci infilai dentro, graffiandomi braccia e gambe. Continuai a cor­rere, finché la nebbia non si diradò.

Fu allora che lo vidi, al centro di una ferita vermiglia che squarciava il cielo.

Identico a come l’avevo mille volte sognato e disegnato.

Immenso.

Infuocato.

Il sole.