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Osservo lo specchio di fronte a me, interrogo la mia immagine riflessa, nella speranza di scorgere un barlume di emozione che alteri anche per un solo istante il perfetto equilibrio delle relazioni tra zigomi, naso, mento, labbra, fronte, occhi, quell’armonia prestabilita che Martin ha voluto consegnare all’eternità. Non trovo niente. Al centro della cornice dorata, in cui la testa di un angelo emerge a fatica da un complicato intreccio di fiori e foglie, il mio volto impassibile mi restituisce uno sguardo vuoto. Eppure so che quest’apparente indifferenza serve a nascondere una vulnerabilità che devo a ogni costo occultare a me stessa, maschera un dolore troppo profondo perché possa permettergli di affiorare. Non ho mai rivisto Martin dopo il 1938, quando lasciai Vienna per non farvi più ritorno. Non so cosa sia stato di lui. Mi disse che ero pazza quando decisi di andarmene, che rischiare un viaggio in un paese straniero, in una città ignota, era una follia. Per quanti sforzi facessi, non riuscii a convincerlo a seguirmi. Quelli come me non viaggiano spesso. Trovare un rifugio sicuro prima che il sole sorga può essere difficile in luoghi sconosciuti, tra genti estranee. Ma di fronte alle più gravi catastrofi anche i migliori a volte soccombono. Molti di coloro che erano presenti al ricevimento dei Poeti Immortali non sono sopravvissuti all’ultima guerra. Anche dopo trent’anni, ciò che mi legava a Martin non era abbastanza forte da spingermi a condividerne il destino.

Chiudo gli occhi. Sento la mano gelida di Martin che stringe delicatamente la mia, mentre le ultime note del valzer si spengono a poco a poco, e dopo l’ennesimo applauso gli invitati si affollano intorno a noi, manifestando una gioia spontanea, in netto contrasto con l’ambiguità che aveva dominato la prima parte della serata. Uno dopo l’altro gli ospiti si avvicinano, esprimendo a entrambi le proprie congratulazioni; si stanno complimentando soprattutto con Martin, ma non riesco a comprenderne il motivo. Tutta la scena ha un che di bizzarro, ma io sembro l’unica ad accorgermene; ho la sensazione di trovarmi a un passo da una scoperta fondamentale, come se il senso ultimo di quanto sta accadendo giacesse appena oltre i confini della mia consapevolezza. All’improvviso, quasi obbedendo a un segnale, tutti si allontanano, formando un semicerchio lungo le pareti. Nessuno parla. Sento i loro sguardi ansiosi fissi su di me, come se stessero aspettando qualcosa; vorrei chiedere spiegazioni a Martin, ma non posso, non con tutti quegli occhi puntati addosso. Martin si inchina, mi fa cenno di imitarlo, poi mi prende di nuovo per mano e mi conduce fuori dal salone. Entrambi rimaniamo in silenzio. Mi guida lungo un breve corridoio, fino a una porta chiusa; appoggia l’altra mano sulla maniglia, poi si volta e mi guarda.

In quel preciso istante so con certezza che mi basterebbe fare un passo indietro, voltargli le spalle e andarmene. Lui non tenterebbe di fermarmi. Se mi mostrassi decisa, priva di esitazioni, mi lascerebbe uscire. Forse si tratta solo di un falso ricordo, nato dal tentativo di attenuare, almeno nella memoria, la violenza di ciò che avvenne dentro quella stanza, o dal desiderio di nobilitare in qualche modo la figura di Martin, di farlo apparire qualcosa di diverso da un assassino. O forse non esistono vittime. Solo complici. Rimango immobile, sostengo il suo sguardo. Lui sorride compiaciuto, forse un po’ sollevato; poi apre la porta e mi fa entrare.

Mi prende tra le braccia, mi solleva di peso e mi adagia su un divano. Mi slaccia il vestito, me lo sfila di dosso e lo depone delicatamente su una sedia. Poi piega un ginocchio davanti a me, come un amante d’altri tempi, mi prende una mano, se la porta alla bocca, bacia il palmo, posa le labbra sul polso, affonda i denti nella mia carne e comincia a bere.

Non c’è molto da aggiungere su quella notte. Solo che, nonostante ormai immaginassi ciò che mi aspettava, a un certo punto, quando sentii che mi mancavano le forze, l’istinto di sopravvivenza ebbe la meglio. Ma i miei tentativi di ribellione, resi via via sempre più deboli dalla consapevolezza dell’ineluttabilità della sconfitta, servirono solo ad accrescere il suo piacere, e il mio.

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Prendo la rivista, mi avvicino al camino e la getto tra le braci ormai morenti. Osservo il mio viso accartocciarsi, annerirsi, disfarsi, le fiamme levarsi improvvisamente alte, brillare per qualche attimo di una vivida luce e poi languire a poco a poco, fin quasi a spegnersi. Sono trent’anni che non ho notizie di David. L’ultima volta che ci siamo incontrati il mio appartamento è andato in fiamme. Non è mai stato un uomo da mezze misure: non si sarebbe certo accontentato di bruciarmi in effigie. Se avessi voluto, in questo momento avrei potuto averlo qui, al mio fianco, anche lui eternato in un’apparenza immutabile. È stato questo a suscitare il suo odio. Mi aveva seguita convinto che alla fine gli avrei ceduto, come chiunque altra prima di allora. Ciò che aveva visto spiandomi dalla finestra della mia camera era stato un colpo durissimo per il suo orgoglio. Non poteva ammettere a se stesso di non esserne all’altezza. Non poteva tirarsi indietro. Non poteva andarsene.