Ancora in ginocchio sul pavimento lurido, David scoppiò in singhiozzi. In quel momento il suo dolore sembrava quasi autentico. Non era per me che piangeva. Era per se stesso. Mi maledisse, e maledisse il giorno in cui mi aveva incontrata. Mi promise che avrebbe saputo ritrovarmi, che avrebbe aperto le finestre del mio rifugio al sorgere del sole, che sarebbe rimasto a guardare il mio corpo bruciare e incenerirsi. Mi disse che questo, da allora in avanti, sarebbe divenuto lo scopo della sua vita. Gli risposi che la sua vita non mi riguardava. Che era libero di sprecarla come meglio credeva, anche inseguendo una donna che lo aveva respinto, e che lui voleva distruggere solo perché non poteva averla alle sue condizioni. Poi gli voltai le spalle e me ne andai. Mi allontanai in fretta, guardandomi intorno alla ricerca di un taxi o di una stazione della metropolitana. Un orologio pubblico segnava le quattro del mattino. Pensai che in quello stesso istante, da qualche parte sulla Terra, stava sorgendo il sole.

* * *

Prendo in mano lo specchio, lo guardo un’ultima volta, poi lo scaglio contro la parete di fronte a me, mandandolo in frantumi. Distruggere qualcuno può essere altrettanto semplice. Senza rimorsi. Eppure non posso fare a meno di chiedermi quanto vi sia di autentico in questa mia pervicace riluttanza, nell’ostinazione con cui continuo a fingere di avere ancora una coscienza, o a comportarmi come se l’avessi; fino a che punto io stia interpretando la parte della me stessa di un tempo, ancora una volta prigioniera di una parodia cui non riesco a porre fine.

Chissà se Martin riderebbe di me, del mio vano interrogarmi intorno al nulla. In fondo anche la nostra è stata la parodia di una storia d’amore, una messa in scena estremamente elaborata, da lui curata nei minimi dettagli, da quell’artista che era. Forse lui stesso aveva finito per credervi, e anch’io, al punto da versare lacrime al momento della nostra separazione, al punto da coltivarne la memoria, come se il dolore fosse l’unico sentimento che la mia natura mi concede ancora di provare.

Ed è proprio il dolore ciò che si cela nello splendore del mio volto immutabile, nell’apparente indifferenza con cui assisto al trascorrere del tempo, al lento spopolarsi del mio mondo, in un continuo moltiplicarsi di spazi vuoti prima occupati da figure umane. Dolore e solitudine sono il nostro comune retaggio, l’orologio intangibile che scandisce il mio incessante vagare da un rifugio all’altro, da una città all’altra, senza osare fermarmi, nonostante gli anni rendano sempre più vane queste precauzioni, quasi che la mia ostinazione nel mantenerle in vita possa in qualche modo procrastinare indefinitamente l’epilogo, il calare del sipario, la scomparsa dell’ultimo protagonista.

Mi avvicino alla finestra, osservo il cielo stellato cambiare lentamente colore, sforzandomi invano di ricordare il giorno in cui ho visto l’alba per l’ultima volta. Tra poco scenderò in cantina, chiuderò a chiave la porta, mi sdraierò dentro la cassa, farò calare su di me il pesante coperchio. L’oblio totale, la perdita definitiva di sé che i mortali sperimentano nell’ora della fine mi attende inesorabile al termine di ogni notte, obolo dovuto al traghettatore cui è stato impedito di assolvere il suo compito. Morire di nuovo a ogni sorgere del sole: mi domando se David lo riterrebbe un castigo sufficiente. Eppure perfino ora, negli ultimi istanti di veglia che mi restano, non posso fare a meno di rimanere in ascolto, di anticipare un suono di passi su per le scale, una voce anche troppo nota che sussurra il mio nome, l’illusione di potermi sottrarre alle tenebre della mia eterna notte.