Ombra e anima

Voldemort non sarebbe dunque altro che l’Ombra di Harry, l’archetipo della parte oscura e inconscia di una persona; e tutta la vicenda ruota attorno a questo tema, correndo verso questo confronto/presa di coscienza finale.

Molti altri sono gli indizi contestuali in questo senso. Anzitutto Voldemort, in quanto lato nascosto, è Colui-Che-Non-Deve-Essere-Nominato. Anche qui la Rowling gioca con due implicazioni: la prima è quella che fa perno sulla paura dell’ignoto che, come ci rammenta H.P.Lovecraft (4), è la paura più antica e radicata nell’essere umano.

La stesso Silente ci ammonisce in merito quando spiega a Harry che “bisogna sempre chiamare le cose con il loro nome” e che “la paura del nome non fa che aumentare la paura della cosa stessa”. (5)

La seconda implicazione è legata ancora più profondamente al tema dell’Ombra e alla sua relazione con i nomi di persona. Per gli antichi Egizi, l’Ombra, chiamata shwt, era un’entità intrisa di poteri e una delle parti fondamentali costituenti l’uomo, assieme all’ib, il cuore con funzioni emozionali analoghe a quelle che noi attribuiamo al cervello.

Completavano il quadro le trascendenze di cui abbiamo parlato nel capitolo sugli Horcrux a proposito della mummificazione e, guarda caso, il vero nome della persona (ren). Pure quest’ultimo, infatti, era ritenuto una parte vivente dell’individuo ed era attribuito immediatamente alla nascita, poiché solo così la persona poteva venire adeguatamente in esistenza nel mondo reale. Tuttavia la sua conoscenza restava segreta, mentre gli venivano affiancati altri appellativi (i faraoni ne avevano fino a cinque) che invece potevano essere resi noti e usati normalmente.

Lo stesso riflesso di pensiero si ritrova nelle società tribali sopravvissute alla modernizzazione: come ha acutamente osservato J.G. Frazer (6), poiché non sono in grado di discernere in modo ottimale fra parole e cose, esse fantasticano che il legame fra la persona o la cosa contraddistinta da un determinato nome non sia un’arbitraria associazione fra semantica e idea sottesa al vocabolo, bensì un tutt’uno che riunisce i due elementi al punto da poter veicolare la magia contro l’individuo sia attraverso le parti del suo corpo che attraverso il suo appellativo. Per tale motivo, i membri di queste società conservano tuttora il segreto del proprio vero nome all’interno di una ristrettissima cerchia, quando non giungono addirittura a nasconderlo a chiunque. In entrambi i casi usano, come sostituti, un soprannome o una perifrasi che individua la loro posizione all’interno della famiglia di appartenenza.

La conoscenza del vero nome di una persona in ambito magico è una suggestione che è stata ben sfruttata nella letteratura fantasy: si pensi ad esempio alla saga di Earthsea di Ursula LeGuin, alla serie di Bartimeus di Jonathan Stroud, a quella di Percy Jackson di Rick Riordan o a quella di The Books of Magic di Neil Gaiman.

Nel settimo libro potteriano, il tabù sul nome di Voldemort muta però di funzione, rispetto ai romanzi precedenti, e viene utilizzato invece come incantesimo per rintracciare i suoi nemici più pericolosi, ossia quelli che, come i membri dell’Ordine della Fenice, lo combattono e non temono di pronunciare il suo appellativo.

Se, psicanaliticamente, Voldemort è la parte non integrata della personalità di Harry, egli è anche, metafisicamente, un riflesso della sua anima, esattamente come suggerisce – lo abbiamo visto in   apertura di capitolo – il cuore delle bacchette dei due maghi. Come ha evidenziato lo psicanalista Otto Rank, l’Ombra è strettamente connessa all’idea del Doppio e quindi all’altra immagine di sé.

Del resto è facile rendersene conto se pensiamo che, nella nostra civiltà moderna, di questa concezione è rimasta ampia traccia nella produzione letteraria: ricordiamo, come esempio su tutti, la fiaba di Hans Christian Andersen in cui l’Ombra riduce a propria ombra l’uomo cui apparteneva, fino ad annientarlo.

Dopo aver esaminato vari esempi di superstizioni primitive – alcune sopravvissute persino nei nostri Paesi civilizzati, come quelle che vietano di calpestare le ombre, oppure di osservare la propria immagine allo specchio in determinate circostanze (il che, di nuovo, ci porta alla mente un riflesso letterario, quello del Ritratto di Dorian Grey di Oscar Wilde) – Rank rileva che questi rituali sottintendono un’identificazione fra ombra e anima e che dunque arrecare danno alla prima implica consequenzialmente perdere la seconda e, metaforicamente, morire. (7) È facile a questo punto comprendere perché allora, nel nostro immaginario, figure di non-morti quali vampiri e zombie non possiedano né ombra né immagine riflessa essendo già, essi stessi, il riflesso di una persona che fu.

Ma, richiamandosi a Sigmund Freud, Rank osserva inoltre che tutto ciò che è soggetto a tabù ha carattere di ambivalenza, ed ecco quindi che all’ombra è anche associata, oltre a quella di spettro mortifero, una valenza di fecondità. Essa è meno diffusa, ma è altrettanto ricca di rituali di scongiuro, volti a impedire che certe ombre cadano su donne incinte, poiché il bambino che attendono potrebbe assumere le qualità di coloro che le hanno proiettate. Anche qui possiamo agevolmente renderci conto di tale chiave di lettura citando materiale a noi più familiare, il Vangelo secondo Luca. Quando infatti l’Arcangelo Gabriele annuncia a Maria la sua imminente maternità, le dice:

Lo Spirito Santo scenderà su di te, su te stenderà la suaombra la potenza dell’Altissimo. Colui che nascerà saràdunque santo e chiamato Figlio di Dio. (1:26-35)

L’ombra è quindi anche un simbolo di virilità e, di nuovo, mi sovviene un parallelo letterario, questa volta nella fiaba di Peter Pan: lui e i suoi Bambini Smarriti, che non vogliono crescere, la perdono spesso e debbono riattaccarsela.

Ancora una volta, tutte queste osservazioni ci riconducono al bisogno di Harry di conquistare il controllo della propria Ombra, poiché solo così è possibile il raggiungimento della piena maturità psichica, fisica e spirituale.