A coordinare l’incontro con il regista Presenti in sala il produttore Peter Loehr con cui Zhang Yimou ha lavorato per film di produzione americana come The Great Wall, e Sabrina Baracetti la direttrice artistica del festival.

La sua carriera nel cinema è nata come direttore della fotografia, perché ha deciso di passare alla regia?

In modo abbastanza naturale perché i due mondi sono attigui. Anzi, direi che per me è stato un vantaggio e l’approccio visivo che avevo imparato mi ha aiutato nella regia.

Lei ha vinto anche il premio come miglior attore nel ‘87. Come l’ha aiutata questa sua esperienza?

Il regista era un mio compagno di università e io mi ero appena laureato come direttore della fotografia. Sul set era quello il mio ruolo ma dovevamo anche scegliere un attore che fosse un viso nuovo in Cina. Siamo andati in giro per tre mesi ma chi veniva a fare casting non era adatto perché erano tutti troppo in carne, per questo prendevano come esempio me per la mia magrezza. Alla fine non abbiamo trovato nessuno e un giorno il regista ha deciso che la parte poteva essere mia. Pensavo stesse scherzando, non avevo nessuna esperienza ma ai tempi era piuttosto coraggioso e ho pensato che avrei potuto divertirmi senza i soliti pensieri insiti nel lavoro, così ho detto sì. Poi mi sono pentito perché era difficilissimo, mi sentivo imbarazzato a mettermi davanti alla telecamera, perché di solito stavo dietro. Sono andato in campagna per capire come si vive lì, perché per la parte dovevo diventare un contadino. Avevo esperienza nelle squadre di lavoro e questo mi ha aiutato ma non penso di aver recitato così bene. Quando il film è finito ho usato il lavoro di attore come merce di scambio per fare il regista perché il mio amico aveva un certo prestigio nell’industria del cinema, così ho potuto fare Lanterne rosse, ma non ho mai più fatto l’attore.

Qual è il suo rapporto con i festival?

Penso che la piattaforma dei festival sia molto importante soprattutto per i giovani registi. Hong Kong è stato il primo festival a cui ho partecipato e la prima volta in cui sono uscito dalla Cina, successivamente ho visto che negli altri paesi il mio lavoro veniva preso in considerazione. Inoltre sono delle piattaforme che permettono non solo di far conoscere il proprio lavoro al pubblico ma anche ad altri registi. FEFF è il più grande Festival dedicato al cinema asiatico in Europa e tutto ciò è bellissimo che in una sala ci spossano riunire così tante persone per vedere un film. Credo che i festival siano anche il principale canale per mostrare film che non saranno mai distribuiti ed è il modo migliore che ha un giovane regista di farsi conoscere.

Quali sono stati i cambiamenti del cinema durante i suoi anni di carriera e qual è la cosa che è rimasta invariata?

In questi decenni è cambiato tutto. Oggi è l’epoca del web, tutti possono fare regia e condividere il proprio lavoro. Guardo tante cose su internet e vedo tanti giovani che fanno cose molto belle. I giovani hanno un pensiero ampio e molto vitale. Oggi tutti siamo registi e tutti sono anche attori. Ciò che rimane però inalterato è il sentimento. Anche se abbiamo tecnologie che ci aiutano a generare centinai storie è solo il sentimento che ci tocca ciò che rende valida una sceneggiatura. Cosa mi commuove? Per ognuno di noi è diverso, oggi ci sono tantissime cose ma è sempre ciò che risuona internamente e crea un’empatia. Il sentimento è la cosa più difficile da cercare e cambia con l’andare del tempo a seconda delle generazioni e della storia.

È molto raro vedere un teatro da mille persone pieno di gente riunite per la proiezione di un film. Oggi ci sono piccole sale ma il sentimento della condivisione penso che sia una cosa che non cambierà. I giovani sono più veloci con il cambiamento, il ritmo di ciò che vediamo e assimiliamo è sempre più rapido e ciò porta a un’evoluzione del nostro cervello. Tutto cambia ma non si cambiano le fondamenta. Per esempio quando siamo emozionati da un film ne vogliamo parlare. Non importa come cambia il ritmo o il futuro del cinema ma il sentimento non cambierà.

Quando si parla di emozione si pensa agli attori. Lei ha scoperto molti attori importanti del cinema cinese. Come li seleziona?

È vero, tra i registi cinesi sono quello che ha scoperto più attori talentuosi. Non penso che tutti possano fare questo lavoro, su mille candidati solo cinque sono quelli giusti. Chi sono? Per prima cosa il candidato deve essere carino perché il pubblico ama gli attori belli, però non basta. Io faccio dei test con la macchina da presa per almeno sei mesi e continuo a riprendere per capire se si tratta di una faccia da grande schermo. Diciamo “faccia da cinema” ma non so neanche io perché. Deve essere un volto che sul grande schermo spacca, che ha qualcosa di attraente. Poi naturalmente ci sono le lezioni di recitazione, la voce movimento ecc, quello non può mancare. Inoltre un attore deve avere il coraggio anche di mostrare i propri sentimenti, non può avere imbarazzo nell’esporre ciò che ha dentro. 

Lei ha lavorato anche con attori hollywoodiani famosi. Come affronta la differenza linguistica?

È bello lavorare con le star perché garantiscono gli incassi al botteghino! Poi quel calibro di attori sono eccellenti e non ti fanno mai perdere tempo perché sono già bravissimi. Nel cinema l’attore è la maggiore forza produttiva perché il personaggio è la prima cosa che arriva al pubblico in una storia, ci ho messo dieci anni per capirlo. Per quanto riguarda la lingua le vere star hanno la capacità di coinvolgerti anche se non capisci una parola di quello che dicono. Ad esempio Matt Damon finita una ripresa veniva da me per chiedermi com’era andata e io non avevo molto da dirgli, ma ero il regista e non potevo liquidarlo e così gli dicevo che poteva migliorare qualche battuta, insomma dovevo inventare un po’. Non puoi dire “buona la prima” quando hai a disposizione una star super pagata! 

Oltre al cinema si è occupato della regia di opere liriche, serie televisive e dell’apertura dei giochi olimpici in Cina. Qual è la differenza creativa in tutte queste esperienze?

È stato divertente dirigere la Turandot quando me l’hanno proposto. Non ne sapevo nulla dell’opera ma ci ho pensato qualche giorno e all’inizio volevo rifiutare, ma ne ho parlato con l’autore delle musiche dei miei film che mi ha fatto capire che era un’occasione imperdibile, e alla fine ho accettato. Sono venuto a Firenze e lavorare con gli italiani è stata un’esperienza molto istruttiva su come funziona l’industria dello spettacolo in occidente. C’era un sindacato che garantiva per esempio una pausa caffè obbligatoria e degli standard di sicurezza da rispettare. Anni dopo quando ho girato The Great Wall c’era una scena con dei cavalli al galoppo, ma il giorno prima era piovuto e gli animali avrebbero potuto farsi male. Sul set c’era un addetto che garantiva la loro sicurezza che ha bloccato tutto anche se in quel momento c’era la luce perfetta per girare. Noi cinesi pensiamo in modo completamente diverso, mettiamo sempre l’arte al primo posto, e anche se ci si fa male non importa. Queste differenze però non centrano con l’arte ma con la società, per questo il dialogo è importante soprattutto nel mondo di oggi. Credo che il cinema sia un ponte che permette di far parlare persone diverse che riescono a vedere la bellezza  e a comprendere chi è l’altro. Per questo amo ancora tanto il cinema.

C’è qualcosa che l’ha spinto a diventare un regista?

I giovani mi chiedono come diventare un bravo creativo. Penso che non c’è un metodo particolare, perché se uno vuole apprendere la tecnica, oggi ci sono mille modi per imparare e tutti partono dalla stessa base e si può essere autodidatti. Quindi imparare è facile, non ci sono segreti o trucchi. Penso per prima cosa sia fondamentale la resistenza. Quando sei alle prime armi puoi incorrere in tanti fallimenti, per questo vuoi mollare ma bisogna resistere a tutti i costi. La seconda cosa importante è saper cogliere le opportunità anche se non si sa mai se l’occasione arriverà, per questo consiglio ai giovani di fare dei cortometraggi e di metterli in rete per ottenere quante più visualizzazioni possibili. Insomma, ci vuole la combinazione di capacità, occasione e resistenza.

Qual è il suo film al quale si sente più affezionato?

È difficile sceglierne uno dopo tutti questi anni. Molti registi dicono il prossimo che farò ma non voglio rispondere così. Il film che amo di più è primo che ho girato perché la prima volta è sempre indimenticabile, comunque voglio andare avanti a fare film con la consapevolezza che non tutti sono dei capolavori. Io naturalmente mi impegno sempre ma ciò che rende riuscito un lavoro è una combinazione di fattori difficile da replicare in maniera sistematica. Ci vuole fortuna perché bisogna avere una squadra eccellente, attori bravi e sul set il regista deve prendere in continuazione decisioni su tutto, e non è detto che siano sempre quelle migliori. La mia prima opera è stata una sperimentazione per sapere se sarei riuscito a fare questo lavoro e il fatto che sia stata premiata nei festival mi ha fatto capire che avrei potuto farlo per davvero!