Se amate le classiche storie fantasy, magari legate più al mondo latino che non a quello nordico; se vi fate prendere dal susseguirsi degli eventi più che non dalle descrizioni e dalle atmosfere; se volete incontrare ancora i personaggi conosciuti con la saga di Derbeer, bene, questo è il libro che fa per voi.

Fabiana Redivo continua a raccontare dei regni afran e pyrikoi con una nuova trilogia, che inizia proprio con questo Il figlio del vento. Sono passati dieci anni dalla battaglia di Sarkvendal e la speranza con cui l'autrice ci aveva lasciato, ora è un bambino harjni, Elias, sveglio e intraprendente. Accompagnato dallo zio e dalla nonna, egli esce dal mondo ristretto in cui è sempre vissuto per intraprendere un viaggio lungo e pericoloso che lo porterà dal Mago Derbeer, che gli insegnerà a usare i propri poteri. Ma la strada da fare è ricca di ostacoli ed Elias nulla sa di ciò che lo aspetta. Saranno sia i nemici sia gli amici a consentirgli di iniziare a conoscere le proprie potenzialità, molto prima dell'incontro con Derbeer.

I temi principali del romanzo sono, come richiesto dalle storie fantasy d.o.c., quelli della lotta tra Bene e il Male e della cerca, anche se non si tratta di recuperare qualcosa di prezioso quanto di metterlo al sicuro; la crescita di Elias si accompagna alla nascente speranza di vedere le terre di Afra e Pyrxos libere dal giogo della malefica Soth. Non mancano le storie d'amore, per ora solo sfiorate o accennate: mi auguro che ci sia spazio per loro nel seguito della trilogia.

Dal punto di vista stilistico il romanzo è un susseguirsi di incontri e avvenimenti, di lotte e fughe, di scoperte e magie. Manca però quel tocco in grado di amalgamare le situazioni, di dare atmosfera: la vicenda appare spezzettata, descritta più che vissuta; i cambi di scena fanno sentire sovente dei piccoli “strappi” che nuocciono alla fluidità della narrazione. La ricchezza dei dialoghi, spesso battute ironiche tra i protagonisti, non è in grado di caratterizzare i personaggi in modo compiuto e completo; al di là delle diverse razze o del loro passato, tutti si assomigliano un po’. L'unico che veramente si distingue è Elias, nucleo di tutta la vicenda e di sicuro parte più riuscita del romanzo.

Nel libro d'esordio, a mio parere era chiara l'inesperienza nel gestire alcune situazioni, soprattutto nei dialoghi; tuttavia la crescita della scrittrice veniva messa in luce nei seguiti, proprio dalla cura con cui era stata sviluppata la caratterizzazione dei personaggi. In questo Il figlio del vento è forse un passo indietro; l'idea è che alla Redivo non manchino le capacità per produrre testi ottimi, ma che il romanzo in esame sia stato gestito in modo un po’ troppo frettoloso, complici anche i refusi e i piccoli errori di punteggiatura che costellano le pagine del romanzo.

L'autrice, infine, ricorre in modo frequente al trucco di far raccontare ai personaggi gli avvenimenti del passato; questo le permette di tracciare dei collegamenti precisi e piacevoli con la prima trilogia. Nello stesso tempo, però, la espone al pericolo dell’infodump (termine con cui si indica un brano di un romanzo in cui l’autore interviene direttamente e inizia a spiegare l’ambientazione o a ricordare direttamente gli eventi passati, NdR), cosicché si accentua la sensazione di non essere completamente immersi nella storia. Per chi non ha letto le vicende de Il figlio delle tempeste, La pietra degli elementi e Il seme perduto i richiami sono utili, ma rimangono comunque troppo evidenti. Si sa che la prova di mantenere, con una seconda trilogia, le aspettative create nel lettore grazie ai primi tre volumi è una delle più dure tra quelle richieste a un autore. Dal punto di vista della trama la Redivo è un pozzo senza fondo di idee e la voglia di vedere come va a finire rimane in bocca al lettore.