Ogni 23 primavere, per 23 giorni il Creeper si risveglia ed entra in una frenesia alimentare predando e cibandosi di giovani ragazzi prescelti in base all’odore della loro paura. E’ l’ultimo giorno prima che la creatura rientri in letargo e un gruppo di giovani studenti di ritorno da una partita si trova a giocarne una ben più importante contro questo terribile predatore.

C’è ancora spazio per l’orrore, per la paura. Abbondanza di spazio in questo nuovo millennio. Lontani dal bosco e dalle sue febbri, riusciamo a scoprire squarci di horror dove meno ci aspettavamo di trovarne.

Victor Salva ci prende per mano e ci fa capire, proseguendo la lezione di Final Destination 2, che il mostro non vive più di notte, in anguste cantine metropolitane bensì può emergere dalla minima crepa che gli lasciamo aperta. Basta un piccolo screzio, un ragazzino che litiga con padre e fratello maggiore e che rimane, annoiato e solo, in un campo di granoturco arso dal sole.

La messinscena è fenomenale e basta un secondo per spazzare via qualsiasi children of the corn di televisiva memoria. Don FauntLeRoy abusa dei filtri caldi e dipinge la tensione di arancione e nero (zucche e pipistrelli?): tre croci, tre spaventapasseri, uno di loro prende vita, il granoturco è l’oceano e il Creeper è uno Squalo (una mascella? una balena non tanto bianca?) volante che ghermisce la preda e scompare in cielo, incurante della furia del padre.

Pochi minuti e tutto è finito, la campagna torna silenziosa, il cerchio nel grano è ben più simbolico e disperato di quelli di shyamalaniana memoria. Esce di scena l’orco e entrano gli agnelli sacrificali a bordo di un bus giallo che tanto ci ricorda gli incubi di Wes Craven. E, dopo l’incipit strepitoso, la vicenda continua a tenere alta la tensione anche se di un tipo ben differente.

Victor Salva è regista coraggioso: non contento di aver rovesciato il gender di una delle basilari regole dell’orrore nel primo Jeepers (il mostro non inseguiva una donna bensì un maschietto) prende forza e moltiplica i corpi in questo secondo episodio.

Si respira atmosfera tesa, pesante, morbosamente affascinante: le poche donne hanno più attributi dei maschi (una è l’autista del bus, le altre spietate Cassandre o tremende impalatrici di mostri) che sprecano tempo e testosterone a litigare fra loro come tanti galletti (in un pollaio che o non c’è o è esclusivamente maschile). Salva calca sull’acceleratore e mette in gioco una serie potente di contrapposizioni: fra maschi e femmine (che si siedono distanti dal pack, scarsamente interessate agli schiamazzi festanti), fra neri e bianchi (ognuno a rinfacciarsi il proprio colore), fra adulti e ragazzi (dei primi il Creeper-Salva fa piazza pulita in pochi artigliosi minuti, senza curarsi di mostrare più di tanto), fra morituri e survivors, in una frizione che genera calor bianco.

Pochissimi autori avevano saputo filmare corpi maschili in maniera così interessante, inevitabile richiamare alla mente Gus Van Sant e William Friedkin quando la corriera si ferma e i ragazzi si stendono sul tetto a prendere il sole con addosso solo i jeans o quando continuano a stuzzicarsi persino durante il muy macho rito del territorial pissing di gruppo.

L’esposizione ha doppia funzione, da un lato puro piacere estetico del filmare (del guardare?) dall’altro lato assistiamo all’invisibile macellaio che prepara i corpi sul bancone, ben in vista al babau di turno che, attratto da tanto ben di dio, non tarda a planare sul posto.

I momenti di crisi, si sa, portano allo scoperto i veri caratteri (e infatti la visionaria del gruppo paragona quegli istanti al vino veritas in un paragone conciso quanto azzeccato) e il mostro ha gioco facile nel dividere il gregge mettendo in mostra una resistenza così tenace a ogni tipo di violenza che scoraggerebbe anche il Terminator. Ogni volta che il demone viene ferito gli basta predare un corpo e sostituire la parte lesa con un ricambio nuovo di zecca in un innesto/sovrapposizione che supera Cronenberg a sinistra.

Se nel maestro canadese la mutazione era in noi che avevamo dentro il seme del potenziale nuovo mostro, in Salva la nostra debolezza ci rende fragili e predabili da una creatura che è tanto più mostruosa in quanto composta da infinite nostre parti. Non è più “noi siamo il mostro” quanto “il mostro è noi” in un gioco dialettico semantico che apre le porte al nuovo horror dopo anni di “urlante” attesa, il tutto reso ancora più pregevole dal basso (finalmente, dopo anni di abbuffate williamsoniane) tasso di metacinema, autoriferimenti, citazioni e omaggi vari.

Ci sono due momenti così importanti e affascinanti che, pensando ai primi, mediocri film del regista viene quasi impossibile non sospettare la presenza di Francis Ford Coppola anche in sede di script o di girato: mentre la creatura studia le prede dal vetro del finestrino, annusando l’aria (e qui Salva oltrepassa l’ormai stanco tema della visione come atto fondamentale dell’horror, cercando di dar corpo e sostanza a una cosa intangibile come l’olfatto psichico) a un certo punto guarda fisso in camera, osserva il pubblico, ammiccando e coinvolgendoci senza possibilità di fuga nel gioco al massacro, consapevole della nostra presenza.

E ancora, poco dopo, l’ala membranosa (una pellicola nella pellicola?) del Creeper casca da uno squarcio del tetto del bus e divide gli studenti in due gruppi, in una sorta di atto contrario al sollevamento del velo di maya. E infatti chi cercherà di passare oltre quella membrana, chi cercherà di squarciare il velo verrà catturato e portato altrove, privato letteralmente della testa (della ragione?).

Impossibile, per motivi di spazio, elencare gli ulteriori, numerosi meriti di una pellicola fondamentale del genere. Dove non funziona, allora, un film come questo? Dove cercare eventuali pecche e difetti?

Paradossalmente i momenti meno pregevoli si annidano proprio nelle sequenze più smaccatamente tradizionali e grandguignolesche, nelle fughe notturne e nella roboante battaglia a colpi di arpione. Il film perde smalto nell’ultima mezz’ora dando corpo a un banale spettacolo dejà vu di fuggi-fuggi dall’assassino che nulla aggiunge a quanto Salva è riuscito a dirci nei primi tre quarti dell’opera. E appare anche sacrificata e poco ponderata l’ossessione che il padre della prima vittima (un Ray Wise comunque efficace) sviluppa istantaneamente per il mostro, passando da Abramo a capitano Achab nel giro di pochi istanti, senza possibile elaborazione del lutto o sviluppo psicologico accurato.

Salva si dilunga anche troppo nel voler illustrare, spiegare, tassonomizzare la sua stessa invenzione, in un progressivo elenco di tempi, modi, caratteristiche fisiologiche che poco interessano: la paura è tutta compresa fra il sospettare e il rivelare e se si scopre troppo, si sa, si può scadere nella noia. A tratti bruttina anche la colonna sonora.

Va da sé che si tratta di carenze che non inficiano l’ottima resa del prodotto finale, sicuramente destinato a ulteriori propaggini scandite dall’implacabile orologio ventitrennale. Ottima prova per Jonathan Breck che praticamente recita solo con gli occhi. Acuta scelta di produzione da parte della coppoliana Zoetrope, a conferma che nell’horror, ancora di più che negli altri generi, bisogna sempre stare attenti ai nomi dei produttori, spesso da soli indice di bontà dell’opera.