Prologo

Napoli, anno del Signore 1738.

C’era un forte tanfo nello scantinato. L’odore di umidità e di muffa si mescolava al pungente aroma del vino e al fumo delle torce.

Dapprima l’oscurità accecò i due uomini, poi i confini di oggetti e scaffali, a loro familiari, si stagliarono nell’ombra.

Nella grande stanza, tappezzata da botti disposte in file ordinate, c’era un solo lume acceso, la sua fioca e lattiginosa luminescenza si intravedeva in fondo alla teoria di barili.

«Funziona anche quello!» esclamò uno dei due uomini. «Siete un demonio, Raimondo.»

L’altro, dal viso spigoloso e gli occhi un poco sporgenti, sorrise enigmatico. «Lo dicono in molti, amico mio. Speravo da voi un’opinione più scientifica.»

Il primo che aveva parlato si sistemò la tunica a disagio. «Siete un genio. I posteri vi ricorderanno come un novello Leonardo. Se solo rendeste pubblica questa scoperta…»

Raimondo scoccò uno sguardo severo all’altro. «Non sia mai! Quello che avete visto e vissuto in queste settimane deve rimanere un nostro segreto. Un segreto da proteggere a costo della vita.» Abbassò la voce in un sospiro addolorato. «Non siamo pronti per accettare una scoperta simile. Mi auguro che vengano tempi diversi. Tempi degni delle Terre.»

«Che cosa pensate di fare col libro? Lo distruggerete?»

Raimondo assunse un’espressione inorridita. «Ma vi rendete conto delle conseguenze, Antonio? Non posso. Abbiamo arrecato già abbastanza danni a quella gente, distruggere il libro potrebbe condurre laggiù a nuovi cataclismi. No, non posso. L’unico modo per tutelare il varco e le Terre è custodire questo oggetto. Tramandarne il segreto, affinché vi sia sempre qualcuno che ne conosca la reale importanza, qualcuno capace di proteggerlo.»

Si avviò verso la luce, che proveniva da una singolare lanterna posata su un tavolaccio di legno. Sul piano irregolare era adagiato, aperto, un libro. La luce biancastra danzava sulle pagine di fine pergamena, adornate di immagini dai colori vivaci, che quasi parevano muoversi al pulsare della fiamma tremolante. Simboli appartenenti a un linguaggio occulto, dimenticato, si intervallavano a pagine in latino, stampate in caratteri neri. Raimondo esitante sfiorò le pagine e richiuse il tomo. «Non posso portare da solo questo peso, ma non mi fido né della mia famiglia né degli amici. Devo rivolgermi a qualcuno che comprenda il valore di ciò che ho scoperto.»

«So a chi vi riferite. Appoggio la vostra scelta.» Antonio si accostò a sua volta. «Vostra Grazia, come spiegheremo la nostra assenza in questi mesi?»

Raimondo sorrise e celò con deferenza il libro in un involto di seta damascata. «Raimondo di Sangro non si giustifica mai.»

 * * *

Ghidara, alcuni mesi dopo.

Il foglio, sospeso a mezz’aria sopra la scrivania, brillò per l’ultima volta, poi si adagiò lieve come una piuma sulla risma ordinata che occupava il centro del tavolo.

«Direi che abbiamo finito.» L’uomo che aveva parlato stava in piedi, voltato verso la finestra e dava le spalle alla stanza. Di lui si vedevano solo le ampie spalle coperte dai capelli, fili argentei che gli scendevano fino alla cintola.

Quando si volse, il viso bianchissimo era illuminato da un sorriso.

La giovane donna a cui era rivolto prese senza delicatezza l’ultima pagina stilata con la magia. Accigliata, lesse il contenuto. I capelli rossi come il fuoco, portati corti, furono mossi da un vento invisibile.

«Molto bene. È del tutto incomprensibile» lo canzonò.

«Non è incomprensibile, è codificato. Ho seguito le indicazioni di Raimondo e sono convinto che funzioneranno a dovere.»

Lei gli restituì il foglio. «Auguriamoci che non serva mai decifrarlo, Udkils. Quella che stai lasciando al tuo casato è una responsabilità enorme.»

Gli occhi dorati dell’uomo si fecero impenetrabili. «Non posso fare altro. A Palaìstra la memoria si perderà, le Pianure dimenticheranno. Ma l’eredità delle Colline non andrà perduta, anche se dovesse cadere nell’oblio.»

Ritorno a Ghidara

 Ghidara la bella,

dalle forme di fanciulla,

stesa sulla collina

mura a corona della regina…

 Il vecchietto, seduto malamente sulla sella a causa di una palandrana multicolore che si impigliava da tutte le parti, cantava a squarciagola da almeno mezz’ora, facendo ondeggiare la capigliatura nivea a un ritmo imprecisato.

I suoi compagni di viaggio si scambiavano di tanto in tanto occhiate cariche di esasperazione, ma nessuno osava intervenire. Il gruppo era formato, oltre che dall’arzillo vecchietto, da una donna ammantata, di cui si intravedeva solo il viso delicato fra le pieghe del cappuccio, e due uomini. Il più anziano dei due, dal fisico vigoroso e dallo sguardo intenso, indossava abiti e insegne del cavalierato. I tratti del viso marcati erano ingentiliti dagli occhi chiari e penetranti, la chioma, color dell’oro brunito, scendeva a sfiorare il collo, nella foggia abituale dei cavalieri. La somiglianza fra lui e il ragazzo più giovane che li accompagnava rendeva evidente il legame di sangue tra loro.