Che la fantasy moderna non possa prescindere dall’opera di J.R.R. Tolkien è un fatto assodato. Volente o nolente, il creatore della Terra di Mezzo ha codificato un genere e gli ha dato popolarità e nobiltà letteraria, e gli autori che sono venuti in seguito non hanno potuto evitare di percorrere il sentiero tracciato da lui.

Magari anche solo per discostarsene decisamente, come accade talvolta. L’ultimo in ordine di tempo a criticare l’opera del professore di Oxford, e a sottolineare con forza la distanza che li separa è stato Richard K. Morgan.

Noto in Italia principalmente per la trilogia fantascientifica dedicata a Takeshi Kovacs (Bay City, Angeli spezzati e Il ritorno delle furie) lo scrittore e sceneggiatore britannico ha esordito recentemente nel genere fantasy con il romanzo The Steel Remains, primo volume di quella che è prevista come una una trilogia.

Per spiegare le ragioni di questa distanza Morgan ha pubblicato un articolo su suvudu.com, sito legato alla casa editrice Random House. Il testo sarà pubblicato anche sul prossimo numero di Drin, la newsletter della casa editrice Del Rey.

È da quando aveva tredici o quattordici anni, l’età adatta – a suo giudizio – per leggere e apprezzare quella roba, che lui non può più definirsi un fan di Tolkien. Riconosce senza problemi la sua importanza nel genere, ma ne definisce la prosa estremamente agitata e reputa gli hobbit dei nauseabondi membri della classe rurale inglese e gli elfi delle creature canterine e sanguinarie che infestano Il signore degli anelli.

Tutti questi elementi rivelano le tracce di una desolata concezione della realtà umana che è completamente in disaccordo con la storia fantastica ed epica per la quale il romanzo è noto.

Come ulteriore prova per ribadire le sue affermazioni Morgan si sofferma sulla figura di un paio di capitani degli orchi in due scene ambientate nella torre di Cirith Ungol.

J.R.R. Tolkien
J.R.R. Tolkien

“Te lo assicuro, non è uno scherzo servire laggiù nella città” afferma Gorbag in Messer Samvise e le sue decisioni, ultimo capitolo di Le due Torri. Mentre svolgono il loro dovere Gorbag e Shagrat parlano, e per qualche affascinante pagina – finché Tolkien non ricorda che i due fanno parte dello schieramento dei cattivi – è possibile guardare dall’interno i personaggi che compongono l’esercito di Mordor.

Gli orchi sono disincantati, scarsamente informati dai loro superiori e costantemente sotto stress proprio per ciò che potrebbe comportare questa mancanza d’informazioni. Sospettano che la guerra potrebbe finire male per loro, e che i loro comandanti, ben lungi dall’essere infallibili, possano compiere enormi errori di valutazione.

Temono che se perderanno non potranno aspettarsi alcuna pietà dai loro nemici, ma mormorano i loro dubbi sottovoce perché sanno che fra i loro ranghi si nascondono delle spie. Inoltre possiedono un rudimentale senso dell’umorismo, sono leali nei confronti dei loro sottoposti e non amano la guerra più di quanto la amino Frodo o Sam. Come tutti gli altri, preferirebbero di gran lunga essere da un’altra parte.

Secondo Morgan queste sono le pagine più affascinanti de Il signore degli anelli, al punto che ciò che viene narrato gli appare, per usare un aggettivo che gli sembra strano se applicato alla fantasy, reale. Lui è interessato a questi orchi, e la laconica frase che ha citato trasforma Gorbag da bruto demoniaco a creatura stanca di un mondo in cui la sopravvivenza è decisamente complicata.

Gli archetipi sono accantonati, e ciò che appare sotto è umano. Questo è il cuore della narrativa, niente Bene e Male, solo la sporca e umana realtà di chi sta vivendo la guerra dal basso. E a suo giudizio queste pagine rispecchiano ciò che in Tolkien era rimasto della sua esperienza in prima persona nella Grande Guerra, quando aveva vissuto nelle trincee la battaglia della Somme del 1916.

Con queste premesse, diventa una vergogna il fatto che Tolkien non sia stato capace (o interessato) d’innestare meglio la sua esperienza per realizzare qualcosa di veramente valido. Una piccola giustificazione può essere trovata nel fatto che la generazione che ha combattuto la Prima Guerra Mondiale aveva visto crollare insieme alle sanguinose rovine che la circondava ogni idea archetipa di Bene e Male che poteva avere. Era servita una notevole forza per emergere da quella catastrofe e realizzare qualcosa di duraturo, e la strada più semplice era dimenticare ciò che di brutto si era visto e rifugiarsi nella più semplice e confortante nostalgia per i valori perduti.

Così ne La Torre di Cirith Ungol che apre l’ultima parte di Il ritorno del Re Gorbag e compagni vengono nuovamente spogliati delle loro affascinanti caratteristiche umane e tornano a essere le figure demoniache di una storia per bambini. Ogni accenno a qualcosa di umanamente interessante è sparito, rimpiazzato dai poderosi toni epici dell’archetipico confronto Cattivi contro Irritabilmente Sfolgoranti Buoni.

Con più di un pizzico d’ironia Morgan chiede al lettore d’indovinare chi vincerà il confronto, e afferma che se quest’opera è definita fantasy ci sarà una ragione. Dimenticando che l’appartenenza al genere non è definita da quella che lui definisce la veridicità dei personaggi ma è legata al mondo che è co-protagonista della storia, e che lui stesso ha appena pubblicato un romanzo fantasy.

Ma forse quest’ultimo dettaglio non gli è del tutto ignoto, perché dopo essersi domandato perché un qualsiasi adulto sulla faccia della terra dovrebbe voler leggere qualcosa come Il signore degli anelli, ricorda di aver scritto un’opera che a quegli stessi adulti potrebbe piacere.

Facendo sorgere così il dubbio che le sue critiche, se pure legittime ed espresse con chiarezza, fossero più interessate a promuovere la propria opera che ad altro.