Erano due stagioni, ormai, che Kitlan si recava dall’anziana guaritrice per accudirne i maiali. E lei era ben lieta di ripagarlo con alcune erbe e molti infusi di sua creazione. A dire il vero, Kitlan non sapeva che farsene degli intrugli della vecchia Iziz, lui avrebbe preferito di sicuro qualche moneta, ma a suo padre piacevano tanto e lo scambio era stato concluso.

Bell’affare, pensò, mentre versava un liquido denso e puzzolente nella mangiatoia dei maiali. Le bestie si avventarono immediatamente, schizzando fango e spargendo la sbobba in ogni direzione, mentre si accalcavano le une sulle altre pur di accaparrarsi il posto migliore.

Che schifo! Per quanto ormai fosse un gesto quotidiano, non riusciva proprio ad abituarsi a quello spettacolo rivoltante. Lo consolava solo il fatto che alla prossima Festa di Primavera un paio di quegli ingordi botoli di carne rosa si sarebbero trasformati nella pietanza principale della Cerimonia del Saluto, e lui sarebbe stato in prima fila per ricevere la sua porzione.

Distratto da questi pensieri, Kitlan non si avvide del pericolo. Due ombre massicce gli invasero il campo visivo e braccia forti e rudi lo strattonarono senza tanti complimenti. Cercò di difendersi, ma la forza di quegli uomini non gli lasciò scampo e fu sopraffatto in pochi concitati secondi. Lo trascinarono all’esterno, mentre lui cercava di liberarsi con strattoni e morsi, ma fu una mossa poco intelligente, perché uno degli assalitori gli tirò un calcio nelle costole così forte da fargli mancare il fiato. Lo gettarono in strada, a faccia in giù, e il dolore gli esplose nel cervello con un lampo bianco. Sentì una voce familiare, qualcuno che lo sfiorava, poi altre urla e un altro calcio lo centrò all’altezza delle reni. Non ebbe neppure il tempo di sentire male. Mani d’acciaio lo afferrano e lo costrinsero a mettersi in piedi.

Fra fumi rossi di dolore, riuscì a mettere a fuoco chi aveva intorno. C’era quasi tutta la gente del villaggio, ammassata e contenuta alla stregua di comune bestiame. Erano tutti nel centro della piazza, e tutti avevano sul volto un’espressione di terrore e confusione.

– Cosa succede? – Le parole gli uscirono a fatica fra un colpo di tosse e l’altro. Sacro Jamodhan, che male!

– Oh, Kitlan, sei tu? Cosa ti hanno fatto? – La voce era quella di una ragazza.

– Nilalith?

– Shhh, non parlare. Siamo nei guai. – Nilalith era la figlia del capo villaggio e Kitlan amava pensare di avere un certo ascendente su di lei. La guardò e capì perché tutti i giovani del villaggio speravano di avere lo stesso ascendente. Nilalith era bellissima. Occhi grandi e scuri, capelli corvini lunghi e ondulati, pelle abbronzata e un corpo flessuoso e generoso nelle forme. Di solito accoglieva sempre tutti con un radioso e genuino sorriso, ma ora aveva il volto tirato e, per quanto possibile, pallido.

– Che genere di guai? – Kitlan provò a tastarsi le costole. Rinunciò subito, appena una fitta acutissima gli strappò un gemito. Probabile che qualcuna fosse incrinata. Perfetto, pensò, stringendo i denti. Ora sì che avrebbe gradito uno degli intrugli di Iziz.

Nilalith gli fece un gesto secco con la mano, ma era troppo tardi. Uno degli uomini che l’aveva malmenato si avvicinò. – Osa parlare di nuovo e ti taglio la lingua, sudicio contadino! – L’alito era pestilenziale. Per dare un senso alla minaccia usò l’elsa della spada corta per saggiare nuovamente la resistenza delle costole. Per fortuna lo colpì sul fianco ancora sano, ma il dolore fu lo stesso insopportabile.

Kitlan ingoiò a vuoto e annuì con vigore, mentre un rivolo di bava gli colava dal mento e finiva sugli stivali corti. Oh, be’, tanto erano già sporchi di fango.

L’uomo si allontanò ridacchiando e prese posto accanto a un altro energumeno. Kitlan li studiò meglio. Erano di sicuro del nord di Iulabor: il loro accento marcato e gli occhi chiari parlavano in favore di questa ipotesi. E poi, avevano tutti spade corte e lance. Tipico dei Nordici. L’armatura, però, era di tipo leggero. Rivestimento in cuoio borchiato ed elmo a ogiva con guanciali corti e cimiero a corna di bue, senza paranaso. Lo stemma sul petto, poi, non apparteneva a nessun casato nei dintorni del loro villaggio. Era un drago bianco che ghermiva una preda: un essere umano. Kitlan non l’aveva mai visto.

Muovendosi con calma, provò a cercare la sua famiglia fra la folla. Vide Dwilamond, il fabbro, Sevelanidd, il locandiere, e Vuldric, capo villaggio e padre di Nilalith. Vide tutti gli altri, ma non suo padre. Forse era dall’altra parte della strada, sorvegliato da altri soldati. Lui ne aveva contati sei, ma era logico supporre che ce ne fossero altri. Ma che accidenti volevano?