Spettabile redazione, qualche anno fa portai un contributo critico fortemente negativo nel merito su un dibattito su Harry Potter, che iniziò su L’Osservatore Romano e che poi proseguì anche sulla vostra rivista online. Ne è corsa di acqua sotto i ponti, e la cosa potrebbe risultare datata, ma gli anni e lo studio quotidiano dei romanzi fantastici vecchi e nuovi (gli appassionati sanno che, grazie al cielo, non siamo stati lasciati soli, e che gli ultimi anni ci hanno visto pervenire doni come lo splendido arazzo di George R.R. Martin, la ferocia straziante di Joe Abercrombie e gloriosamente molti altri) mi hanno portato spesso a riflettere nuovamente sull’argomento, tanto che adesso ci tenevo, per correttezza intellettuale, a scrivervi – e spiegarvi – come mai parte consistente delle mie motivazioni – e più ancora del metodo usato- non mi convincano più. Lo farò citando anche alcune preziose indicazioni sul come leggere i racconti fantastici del grande scrittore e saggista C.S. Lewis che in quegli stessi anni citavo anche in contrapposizione netta con la Rowling.

Proprio C.S. Lewis ammoniva che “possiamo definire l’illetterato come un uomo che legga i libri una volta sola. C’è speranza per l’uomo che non abbia letto Malory o Boswell o Tristram Shandy o i Sonetti di Shakespeare: ma che dire dell’uomo che dica di “averli letti”, e con questo intenda averli letti una volta e pensi così di aver esaurito la questione?”

E così ho continuato a leggere, rileggere, e riflettere. Ed ecco il giudizio cui sono arrivato, e che ritengo più maturo e comprensivo di quanto veramente esprime la mia esperienza di lettore.

Anzitutto non si può anzitutto accusare una persona, o un opera d’arte, di non essere quello che appunto non è.  Come già scrissi anni fa ritengo tutt'oggi che la battaglia sui cosiddetti “valori” di un libro sia male impostata. Nella lunga storia della Rowling ci sono tantissimi spunti interessanti, intuizione profonde e perfino commoventi, altre scelte meno meno felicma non è nemmeno questo il punto. I romanzi di “Harry Potter” non vanno anzitutto bocciati o promossi a seconda che propugnino a noi i “valori” di una posizione filosofica, ideologica o confessione. Va anzitutto capito che cosa siano e quale sguardo comunichino al lettore. Ed essi sono il “romanzo di formazione”- sette storie che scandiscono il passaggio alla maturità – di un giovane mago in lotta contro il male. Lo sguardo della scrittrice è certamente molto diverso da quello con cui molti altri narratori prima di lei hanno affrontato lo stesso tema: temi e immagini molto antiche – l’orfano su cui grava un destino misterioso –  si intrecciano a sfumature ben più moderne, che vanno da Dickens allo stato effettivo di tante famiglie oggi. Biasimarla di guardare così, scrivere così sarebbe come biasimare a priori E. R. Eddison di aver scritto dei fantasy “alla Nietzsche” o Mervyn Peake “alla Fafka”, o di accusare Martin o Abercrombie di scrivere dei fantasy “duri e cupi”.

Si tratta invece del loro proprio specifico che va “compreso” e sempre Lewis direbbe “goduto”, con il quale occorre immedesimarci per gustare anzitutto la storia-visto che una delle cose meravigliose dei libri è che si può guardare con gli occhi e l’ anima di un’altra persona; la distanza critica di alcune scelte o la valorizzazione degli aspetti che piacciono o convincono viene in secondo tempo.

E così veniamo al ruolo dei simboli di cui la storia è intessuta. All’epoca criticai la distorsione di significato di taluni simboli tradizionali che vedevo in atto nella struttura dei romanzi della Rowling, quali la stregoneria. Ma in effetti un più dettagliato sguardo alla storia della narrativa fantastica, dall’Odissea a Il Signore degli Anelli, presenta un panorama più sfumato, complesso, e suggestivo. Alla magia nera si contrappone spesso la magia bianca, e perfino lo stesso incantesimo può risultare semplicemente una spada che, impugnata da un malvagio compie malvagità, impugnata da un cavaliere soccorre e protegge. Non solo il ‘900 ci ha regalato splendidi romanzi sui maghi buoni come la tetralogia della Le Guin, ma, a ben guardare anche fiabe e leggende ben più antiche, dall’ Apprendista Stregone in poi.

Gli stessi draghi che in quasi tutte le antiche storie sono crudeli e malvagi o “neutralmente” terribili, possono risultare comici aiutanti come nel tolkieniano Cacciatore di draghi o perfino valorosi  e magnifici come il drago pentito di   Il Viaggio del Veliero di Lewis.

Questi sono i motivi principali per cui la mia critica di allora mi appare oggi in parte sbagliata, quantomeno metodologicamente. Altri scrittori e validi studiosi hanno detto altro, sia a favore che contro. Per quanto mi riguarda ancora oggi in “Harry Potter”, che apprezzo assai di più come storia, ci sono alcuni elementi profondi che – come lettore e in paragone con altri grandi romanzi fantastici che lo precedono o lo seguono – non mi piacciono, non amo e magari non mi convincono affatto, umanamente e artisticamente –  tra cui un uso troppo facile e “senza costi” della magia e un percorso di crescita del personaggio molto più fiacco di quello di altri eroi similmente "feriti", Frodo tra tutti – cose che "non funzionano", ma, come vedete, si tratta semmai di un dibattito all’ interno dei principi stessi del fantasy e dello sviluppo della trama e non in nome di categorie esterne e previe. Questo mi fa sentire tali eventuali obiezioni più precise al tempo stesso rispettose, più "mie" se posso dire, perché nascono dall'amore per il genere fantastico stesso. Proprio come una bistecca va giudicata troppo cotta o troppo poco sul parametro – almeno per un toscano come me – di una bella fiorentina. Ancora una volta Lewis lo aveva detto molto prima e molto meglio di me, quando notava che spesso le recensioni di certi libri sono sbagliate, perché il recensore si trova a giudicare un genere che magari non ama “La critica dei generi in quanto distinta dalla critica delle opere non può naturalmente essere evitata ma questa è, credo, la più soggettiva forma di critica, e la meno affidabile. Soprattutto, non la si può mascherare come critica delle opere vere e proprie. Molte recensioni sono inutili perché, mentre si propongono di condannare il libro, rivelano solo l’avversione del recensore per il genere cui esso appartiene. Lasciamo che le cattive tragedie siano censurate da chi la tragedia la ama, e i cattivi polizieschi da chi ama il poliziesco. Allora potremmo conoscerne i veri difetti. Altrimenti troveremo l’epica biasimata per non essere un romanzo, le farse per non essere commedie elevate, un romanzo di James per non avere la velocità d’azione di Smollet. Chi è che vorrebbe sapere di un chiaretto mal considerato da un astemio totale, o di una donna da un noto misogino?”

Mi consola, ancor giovane, bello e modesto, saper modificare talune posizioni e opinioni. Qualche altro appassionato con cui dibattei in passato penserà che gli debba una birra,  ma magari magari me la offrirà lui stesso alla locanda del Puledro Impennato o in un’altra delle infinite che costeggiano le vie della Terra della Fate. Non dico mai di no: scrivere mette sete.

Edoardo Rialti insegna Letteratura Comparata in Italia e in Canada. È saggista e traduttore di letteratura inglese, e scrive per “Il Foglio”, occupandosi spesso di letteratura fantasy.

Twitter:. @Rialticentrico