Francesca Angelinelli fa subito venire in mente, a chi ne ha seguito la strada, una caparbia volontà di scrivere e affermarsi. Dalla pubblicazione con contributo dell'esordio sono passati pochi anni ma ormai hai diversi titoli all'attivo. Vuoi riassumere brevemente le tappe della tua carriera di scrittrice?

Ho pubblicato i miei primi romanzi, i fantasy orientali Chariza. Il Soffio del vento e Chariza. Il Drago Bianco (oggi entrambi fuori edizione), nel 2007 per Runde Taarn. Nel 2009, sempre Runde Taarn, ho pubblicato il fantasy eroico Valaeria e il paranormal romance Werewolf, per i tipi di Linee Infinite; il primo e l’ultimo romanzo che ho scritto, due esperienze molto diverse di scrittura e di pubblicazione. Sempre nel 2009 la raccolta Racconti di viaggio del monaco Kyoshi si è classificata prima alla seconda edizione del concorso di narrativa fantastica “Altri Mondi” e il volume è stato pubblicato nel 2010 da Montag. Un ritorno al fantasy orientale coronato dalla pubblicazione di Kizu no Kuma, primo volume della serie Ryukoku Monogatari, per Casini Editore.

Esordire pubblicando a pagamento: gioie e dolori. Un'esperienza che pensi di aver saputo volgere a tuo vantaggio?

Nel 2004/2005, quando iniziai a cercare un editore per i miei lavori, il rapporto tra editoria e fantasy in Italia era molto diverso, mancavano tante delle possibilità e molta dell’attenzione che invece c’è oggi. Per cui all’epoca quella scelta, che non ho mai rinnegato, era forse l’unica possibile per un progetto che doveva essere messo alla prova con un pubblico diverso da quello di internet. Ero prima di tutto io a dover capire se la strada che avevo intrapreso era quella giusta.

Non saprei, quindi, dire se ci sono stati vantaggi o svantaggi nella mia decisione, certo è che per me è stata un’esperienza utile. Nessuno nasce conoscendo il mondo dell’editoria e penso che un po’ di gavetta non faccia mai male a nessuno. Ho messo alla prova me stessa e il progetto, che poi ha trovato sbocco nella serie Ryukoku Monogatari, e questo è stato sicuramente importante.

Presentare i libri alle manifestazioni e alle fiere, parlare con i lettori, dedicare tempo ai forum su internet. Sono attività che non sempre piacciono agli scrittori perché portano via del tempo al loro vero compito, che è quello di scrivere. Qualcuno addirittura le snobba, forse esagerando. Ma possono aiutare davvero a farsi conoscere?

Personalmente ritengo di sì, innanzitutto perché i lettori sono l’unica forza che un autore ha. Puoi aver scritto il più grande capolavoro della letteratura mondiale di tutti i tempi, ma se non lo legge nessuno… Non è solo “mercato”. I libri vengono scritti e pubblicati per essere letti, prima ancora che per essere venduti, è impossibile negarlo. Il lettore è una controparte di cui nessun autore può fare a meno, secondo me. Non è, quindi, una perdita di tempo incontrarli, ma un’occasione di crescita e di confronto con quelli che sono i veri e supremi giudici della nostra scrittura.

Inoltre bisogna ricordare una cosa: pochissimi esordienti o emergenti hanno alle spalle case editrici che possono impostare su di loro una campagna promozionale forte che li porti subito ai vertici e che li faccia conoscere a un pubblico vasto. Moltissimi devono avvalersi del “passaparola” e mettersi in gioco in prima persona. Reale o virtuale che sia, però, questo comporta sempre l’incontro con altre persone e non a tutti, per carattere, può essere congeniale esporsi in questo modo.

Parlaci della tua formazione: quando hai sentito la necessità di scrivere? Hai cercato una formazione tecnica con corsi o letture di manuali o ti sei fidata della tua ispirazione soltanto?

La necessità di scrivere c’è sempre stata, fin da quando ero bambina. Ma a un certo punto è diventato necessario decidere se lasciare la scrittura allo stato di semplice hobby oppure se tentare una strada diversa e più professionale. Per questo ho frequentato per due anni un corso di scrittura creativa e ho iniziato a studiare manuali che continuo a rileggere e consultare ogni volta che inizio un nuovo progetto. Non si finisce mai di imparare!

C'è qualche lettura particolare o qualche autore che ti ha influenzato?

Marion Zimmer Bradley, sicuramente. Oltre ad amare molto i suoi romanzi e ad ammirare la sua scrittura, posso dire che le sue antologie sono state per molti aspetti il mio primo manuale di scrittura creativa perché in esse riportava spesso i consigli che aveva dato agli autori per scrivere i racconti presenti nelle antologie stesse.

Shikibu Murasaki, con il suo Genji Monogatari è di certo una delle autrici cui devo di più. L’abilità narrativa dei giapponesi, per me, è sotto certi aspetti ineguagliabile e un punto di riferimento fondamentale per la mia scrittura.

Non posso dimenticare Lev Tolstoj, dal mio punto di vista uno dei più grandi narratori di tutti i tempi, modello irraggiungibile che mi spinge a cercare sempre di migliorare.

La tua passione per l'Estremo Oriente ha un motivo particolare?

Sono abbastanza sicura che si sia trattato di un imprintig. Quando avevo un anno mio padre leggeva Shogun per farmi addormentare. Per cui temo di essere stata irrimediabilmente compromessa già all’epoca.

A parte questo, sono nata negli anni ’80 e cresciuta con le serie d’animazione giapponesi. Pochi ci pensano, ma l’oriente per molti di noi è sempre stato abbastanza vicino. E il salto dalla passione per anime e manga a quella per la letteratura, la cultura, la storia, le tradizioni… del Giappone è stato per me breve e naturale.

Scrivere un libro è un lavoro che riesci a eseguire rapidamente e metodicamente, o è un lavoro che procede a sbalzi e con difficoltà?

Rapidamente no, i miei tempi di scrittura si sono di molto dilatati. Metodicamente sì, poiché lavorando molto sulla preparazione preliminare del testo, nel momento in cui vado effettivamente a scriverlo ho una guida sicura da seguire

Ma soprattutto, scrivere è veramente un lavoro? Hai preso in considerazione l’idea di farne una vera e propria carriera lavorativa? Pensi che sia possibile?

Scrivere, seriamente, non è un hobby, ma purtroppo non è nemmeno un lavoro. Intanto perché richiede una buona dose di passione e di dedizione. Poi perché, soprattutto in Italia, non è pensabile, nella maggior parte dei casi, farne una professione che permette di mantenersi