Chiara li fissò, fece un timido tentativo di pulirsi con le mani la gonna sudicia, ma le mani erano più sporche della gonna. Accennò un sorriso, nella vaga speranza di intenerirli, ma i due rimasero corrucciati e granitici. 

Finalmente zio Erik si mosse, si chinò su Chiara, la prese in braccio e la posò sulla cassapanca che troneggiava contro la parete più lunga della stanza, così da avere il viso all’altezza di quello di lei. 

«Ascoltami bene, bimba, e fai attenzione. Non solo ci siamo assunti la responsabilità della tua vita davanti ai tuoi genitori, ma ti amiamo. Questo non hai il diritto di dimenticarlo. 

Non hai il diritto di rischiare impunemente la tua vita, perché, anche se pensi il contrario, in realtà non ti appartiene. 

Non completamente, almeno. Appartiene anche a noi che ti amiamo, e tu non puoi farne quello che vuoi. Non hai idea di quello che potrebbe succederti lì fuori, potresti cadere da un  tetto e ucciderti, potresti essere rapita, e tu sei anche la figlia di un re. Se ti succedesse qualcosa, il popolo già disperato per la morte di tuo padre, diventerebbe ancora più disperato. 

Non hai scelto di essere la figlia di un re, forse ne avresti anche fatto a meno, ma noi non possiamo scegliere quello che la vita ci mette davanti. Però possiamo scegliere come fronteggiarlo. Ti prego di affrontare la tua responsabilità di esistere con onore. Ti chiedo ora la tua parola d’onore che non abbandonerai mai questa stanza di notte, ora e per sempre. 

Se sei la figlia di tuo padre, devi sapere già che cos’è l’onore.» 

Chiara rimase in silenzio, lottando con l’imbarazzo e la vergogna. 

Era tutto vero. Se invece che Skardrail fosse capitato qualcuno cattivo avrebbe spezzato il cuore non solo agli zii, ma anche a tutta la gente, quelli che accendevano le candele e portavano le melanzane. 

Morire, cadere, farsi ammazzare sarebbe stata una vigliaccata. 

Le si riempirono gli occhi di lacrime. 

Prima edizione: settembre 2010 

© 2010 by Silvana De Mari 

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