Mentre faceva i suoi primi esperimenti con le sillabe, Chiara si rese conto che Aila, la cuginetta nata insieme a lei, sua sorellina di latte visto che la zia le aveva allattate entrambe, era mezza sorda e non capiva un accidenti di niente. Mai. Era preoccupante e la cosa incredibile era che nessuno se ne preoccupava. 

In compenso tutti si preoccupavano per lei: sempre sola, sempre silenziosa, con quegli improvvisi scoppi di pianto disperato. 

Chiara prese l’abitudine di scappare nelle cucine e lì se ne stava giornate intere, ferma, ovviamente in silenzio, seduta nelle ombre vicino ai camini spenti, lasciando che vestitini, mani e faccino le si sporcassero di fuliggine e cenere, nella speranza forse di potersi confondere con il buio, fino a scomparirci, così avrebbe potuto non sentire più l’eterno coro di voci che belava su di lei, lei così brutta, forse folle, lei che nessuno voleva, lei che aveva ucciso la sua stessa madre. 

La desolata tristezza che quell’eterno brusio le aveva sempre causato fu il motivo per cui decise di interrompere gli esperimenti con le sillabe e rimandare a data da stabilirsi l’uso della parola. 

Quando, per la prima volta, insieme ai suoi cugini maggiori, Antrin e Gesciua, Chiara giocò a tirare sassi nel cortile interno, scoprì di avere una mira infallibile. 

«Eh, mocciosa, non ne sbagli una!» commentò Antrin. 

«Sei una strega e gli hai fatto una magia ai quei sassi, sembra che volano come uccelli al tuo volere! Dicono che la tua mamma era un po’ strega, perché se no non è possibile che sei più brava di noi» aggiunse Gesciua. Il tono però conteneva impalpabili tracce di un barlume di ammirazione. 

Tirare sassi era vietato e contrariamente ai cugini lei non si fece mai pescare con i sassi in mano dalla balia, perché ne prevedeva l’arrivo con un attimo di anticipo. 

Per il terzo compleanno gli zii regalarono a Chiara e Aila un piccolo pony, fornito di una folta criniera e del poco ampolloso e immeritato nome di Osso. Aila ne fu terrorizzata e non ne volle sapere. Chiara sembrava essere nata per stare a cavallo. Già dalla prima volta che fu messa sulla schiena della bestiola, ne sentì nella mente il piacere di camminare sull’erba fresca annusando l’aria pulita del primo autunno. 

Scoprì che, come per i sassi, poteva guidarne il movimento solo desiderandolo. Contrariamente ai sassi, però, il pony era vivo e la presenza di Chiara all’interno dei suoi pensieri gli piaceva moltissimo, gli piaceva come avere le carote, più di avere il fieno. Il pony ignorava di essere stato regalato anche ad Aila. Voleva essere, da allora e per sempre, suo e solo suo. 

Un giorno d’estate, mentre guardava intensamente una rana nello stagno, Chiara ne sentì il movimento dentro la testa, che divenne desiderio appassionato di scivolare nell’acqua e di nuotare, di avvertire la sensazione di liquido contro la pelle, rabbrividire per un istante per il fresco. Si buttò. Fu incantevole. La zia e la balia si precipitarono a salvarla, ma non furono abbastanza veloci, e quando finalmente la tirarono fuori, ormai lei aveva scoperto di saper nuotare: le piaceva anche di più che andare sul pony. 

Chiara diradò la frequentazione della fuliggine delle cucine a favore di quella dei giardini. Giocava con Osso, stava nell’acqua, oppure sugli alberi: imparò ad arrampicarsi guardando un gatto e sentendone i movimenti dentro di sé, con l’agilità del gatto che finiva dentro i suoi muscoli e nelle dita delle mani, che impararono a fare presa sulla corteccia come artigli. 

Dai rami passava ad altri rami, poi ai cornicioni delle stalle, dalle stalle ai rami degli alberi del frutteto e da lì alle terrazze e poi su, arrampicandosi sulle grondaie, su fino ai tetti. 

Dai tetti si vedevano le nuvole. Chiara scoprì che ne conosceva i nomi: cumuli, cirri, nembi, benché non ricordasse chi mai glieli avesse detti. Scoprì di conoscere i nomi delle stelle che cominciavano a brillare quando lei si attardava fino al buio, nonostante la rumorosa disapprovazione della balia e di zia Fiamma che, sempre più scoraggiate, si disperdevano in inutili ricerche in luoghi sempre situati molto più in basso di quelli dove lei volteggiava. Le stelle, come le nuvole, si riflettevano raddoppiate nell’acqua delle risaie, ma più bella di tutto era la pioggia. La pioggia era acqua chiara che scendeva dal cielo per unirsi a quella scura delle risaie: a ogni goccia c’era una minuscola esplosione di altre gocce che saltavano verso l’alto per accogliere l’ultima arrivata, appena venuta a raggiungere la comitiva. Chiara restava con il faccino rivolto verso il cielo a sentire la pioggia che le lavava le guance e i capelli, le inzuppava le vesti portando via tutte le briciole di fuliggine e di tristezza, fino a quando restava solo il profumo dell’aria pulita, il desiderio di diventare un pesce o di saper volare, con il volo lento e calmo degli aironi oppure con quello veloce e silenzioso delle civette e dei gufi. Muoversi nella pioggia era muoversi nell’acqua. Quando pioveva di notte e tutti erano troppo intenti a dormire per mettersi a cercarla, quando finalmente nessuno poteva vederla, Chiara saliva sui tetti e nascosta dal buio, circondata dall’acqua, si abbandonava a una danza vorticosa fatta di giravolte sempre più veloci, come una trottola. I suoi piedini non sbagliavano mai. Per quanto irregolari fossero i tetti, lei sapeva sempre, anche nel buio assoluto delle notti di pioggia, che il suo passo sarebbe finito su un punto certo, che lei non avrebbe superato le poche spanne che la separavano dal baratro, e anche in quelle occasioni, nel buio assoluto delle notti di pioggia, lei sentiva il chiarore, quello delle stelle che comunque brillavano dall’altra parte delle nuvole, il chiarore dell’acqua, che sia pure nascosto nel buio continuava a esistere, forse anche il suo. A volte i lampi squarciavano il buio e i tuoni la assordavano, e in quei momenti la sua gioia diventava assoluta, con il fuoco, l’acqua e il vento uniti alla sua danza piena di furore. Gridava anche, con tutto il fiato che aveva, certa che gli scrosci dell’acqua e il ruggito dei tuoni avrebbero celato la sua voce. Poi il temporale finiva, le nuvole si diradavano, la luna o l’alba sorgevano a illuminare le pozzanghere della città che dormiva tranquilla, al di sotto della bambina che ballava sui tetti, girando in tondo come le stelle. 

Dai tetti si vedevano altri tetti, dalle terrazze si vedevano altre terrazze. Andando dietro ai gatti, inseguendo le farfalle, seguendo le stelle, Chiara impiegò le sue notti insonni a postarsi di giardino in giardino. Passò dalle terrazze, dai balconi. 

Arrivò alla cerchia di mura che separava la parte centrale della città, la più antica, dalla Cerchia Media, il luogo dove artigiani, armaioli, fabbri, ebanisti, vetrai e speziali vivevano, prosperavano e tenevano minuscole botteghe e officine, ognuna contrassegnata da un’insegna che ne indicava la natura e lo scopo. Sugli spalti sonnecchianti, armigeri facevano la distratta guardia dei tempi di pace. Scivolando sopra le tegole di botteghe sulle cui insegne brillavano, alla luce della luna, incudini, alabarde panciute, storte ed esili, aghi infilati con gugliate di rame, Chiara saltellò fino alle mura che separavano la città degli artigiani dalla Cerchia Esterna, l’ultimo girone aggiunto alla città, il più recente, quello dove vivevano i più umili, lavandaie e tintori e gli ultimi arrivati, i mendicanti, coloro che non avevano nulla da fare, tutti quelli che non avevano altri luoghi dove stare. 

Chiara si affacciò e rimase a lungo a guardare. Era un posto pieno di odori. C’erano case, casine e casette, una sull’altra, apparivano come delle colate di piccoli muri interrotti da piccole finestre. Ovunque ci fosse una zolla di spazio, sui tetti delle casupole, su grandi tavole attaccate con ciclopiche corde ai muri, prosperavano filari di pomodori, cespi di insalata e cavoli. I vicoli che separavano le cascate di case erano interrotti da fili e fili su cui erano stese miriadi di teli, ogni filo con un colore diverso di teli, creando geometrie multicolori che Chiara trovò bellissime. 

La reggia dove Chiara viveva era al centro della Cittadella, il più interno dei segmenti in cui le tre cerchie di mura dividevano la capitale; gli altri due, concentrici, erano la Cerchia Media ed Esterna. 

La Cittadella era la parte più antica, la più nobile, la più alta, la più protetta in caso di attacco, il cuore, il nucleo originario, dove si alzavano i palazzi patrizi, dove scintillanti giardini uscivano dall’ombra dei colonnati, le fontane zampillavano protette dagli aranceti. L’acciottolato delle strade era piccolo, regolare, formava disegni di arabeschi e semicerchi che si inseguivano ovunque.