La Cerchia Esterna della città, la più esterna, era la più recente, stretta tra muri altissimi: solo nell’ora centrale dei giorni estivi il sole riusciva a inondarla, cacciando per qualche ora l’umidità, che per il resto regnava invincibile, facendo prosperare grandi colate di muschio morbido e scuro, che arrivavano ai tetti delle minuscole case dai muraglioni, sprovvisti di marmo sulle facce interne. Non solo le radici dei cespugli di capperi, ma quelle di interi alberi di fichi e ciliegie selvatiche trovavano spazio tra le pietre delle mura. Gli archi che sovrastavano la Cittadella e la Cerchia Media sostenevano glicini e roseti. Da quelli che sovrastavano la Cerchia Esterna grondava roba da mangiare, more, lamponi e uva. 

Tornò indietro alle ordinate terrazze della Cerchia Interna con gli occhi pieni di colore. 

Chiara ricordava bene l’ultima volta che aveva visto il padre, prima della sua partenza. L’imbarazzo era stato penoso e reciproco. Chiara era sempre stata terrorizzata dall’incontrarlo. 

Temeva che lui la rimproverasse di avere ucciso la mamma, ma per fortuna lui non l’aveva mai fatto. 

Suo padre se n’era andato per non tornare mai più. 

Al suo posto erano arrivati messi disperati ad annunciarne la morte, e poco dopo altri ancora più disperati ad annunciare che bisognava andare in guerra. Tra i due annunci ci fu ungiovane soldato che con gli occhi pieni di pianto consegnò a zia Fiamma, anche lei in lacrime, la grande spada di suo padre e la sua bisaccia. C’era anche zio Erik, e persino lui si  mise a piangere. 

Tutto si era svolto nella sala dei libri e nessuno si era accorto di Chiara acciambellata nell’angolo della balaustra alta della biblioteca. Dopo che il messo se ne fu andato, Fiamma aprì la bisaccia. 

«Ci sono delle lettere. Sono lettere per Chiara!» aveva detto la zia, tirandole fuori dalla bisaccia.

«Lettere! Lettere di suo padre per lei. Le dice che la ama. Finalmente.» La zia cominciò a leggere, poi si interruppe. 

Arrossì. «E ci sono cose terribili. Ci sono cose che un bambino non può capire.» 

Suo marito annuì. 

«Non credo che dovremmo leggerle. Non dobbiamo leggerle. 

Va bene. Certo, aspetteremo che Chiara sia grande, che sappia leggere, che possa capire.» 

Erik tolse le lettere dalle mani della moglie, le rimise nella bisaccia, la sigillò facendo colare una grossa goccia di ceralacca e imprimendo poi il sigillo che aveva nell’anello. Poi aprì la grande cassapanca della biblioteca, ripose la bisaccia in mezzo a rotoli di pergamena, richiuse, serrò con la chiave che poi appese alla cintura della moglie. 

«Andiamo a dire alla bambina che suo padre l’amava moltissimo» disse alla moglie. «Che l’amava moltissimo e ripetiamoglielo in continuazione.» 

Suo padre era morto. Era morto il re di Varil, il grande difensore del mondo degli Uomini, quello che aveva respinto gli Orchi tredici anni prima, che aveva riconquistato il mondo degli Uomini, l’invincibile; e adesso gli Orchi attaccavano le frontiere. 

Zio Erik partì con la sua armatura, e la zia rimase sola, come tutte le donne di Varil, e come tutte loro ogni tanto si nascondeva in un angolo a piangere. Quando non piangeva andava da Chiara per dirle che suo padre l’amava tanto. 

Riprese i tentativi di toccarla, e Chiara doveva fare i salti mortali per evitare che la zia si avvicinasse troppo, o peggio, la prendesse in braccio, fino a che la zia, temendo altre crisi, si arrendeva davanti a quel comportamento da piccolo istrice rognoso e se ne andava. 

I cugini stavano tutti insieme nella stessa stanza, anche per consolarsi gli uni con gli altri della partenza degli uomini con l’esercito. 

«...Sono partiti, fanno la guerra, vincono e tornano subito...» 

«...Peccato che siamo troppo giovani, altrimenti saremmo andati anche noi a vincere la guerra con loro, a coprirci di gloria. 

Speriamo che non uccidano tutti gli Orchi, che ce ne lascino qualcuno per quando anche noi avremo l’età...» 

Soffocata e nascosta nelle spacconate nelle stanze alte, la paura esplodeva nelle strade e nelle cucine. 

«...Gli Orchi attaccano e Rankstrail non è con noi...» 

«...Il nostro re non è qui a proteggerci...» 

«...Il nostro re è disperso nel Mondo dei Morti... noi abbiamo bisogno di lui...» 

Chiara restava accucciata sul pavimento della stanza dove Antrin e Gesciua imparavano come erano fatte le lettere e come si mettevano una dopo l’altra. Un giovane precettore le 

mostrava disegnate su grandi fogli, che poi venivano rinchiusi tutti insieme in grandi contenitori di cuoio colorato, chiamati abbecedari. Chiara ascoltava in silenzio e si esercitava rifacendo le lettere con il ditino sul pavimento. Era troppo timida per chiedere apertamente di imparare e poi temeva di offendere tutti dimostrando doti e capacità eccessive. Si era già accorta che per i suoi cugini era sempre un disonore scoprire che lei era più brava di loro in qualche cosa. 

Ci volle pochissimo perché imparasse a leggere. Non imparava le lettere: le ricordava. Da qualche parte nella sua memoria c’erano già, insieme al nome delle stelle e delle nuvole. 

Aprire la cassapanca non fu difficile. Chiara si muoveva nel buio silenziosa e sicura come un gatto e le fu facile prendere la chiave nella stanza della zia dormiente. 

Chiara era forte. Il suo continuo vagabondare sopra i tetti e sotto il pelo dell’acqua degli stagni le aveva dato le spalle e le gambe di un piccolo lottatore. Sollevò senza sforzo il pesante coperchio della cassapanca. La bisaccia era di vecchio cuoio, sporco e consunto. Chiara l’annusò e a lungo lasciò scorrere i polpastrelli sulle rughe e sulle scorticature, prima di trovare il coraggio di aprirla. La luna salì alta nel cielo e la illuminò. Allora finalmente si decise. Il suo cuore batteva come quando correva per scappare ai cugini. Con molta delicatezza scollò il sigillo dello zio senza romperlo. 

L’interno della bisaccia era un assembramento di oggetti, non tutti prevedibili. C’erano il necessario per scrivere e il sigillo reale, certo, ma c’erano anche il vecchio nocciolo di un qualche frutto, un pugno di petali secchi e macchiati, un pezzo di pergamena vecchio, unto, sudicio e coperto dai resti di una qualche scrittura ormai resa indecifrabile dal tempo e dall’usura. 

Infine, tante, tantissime, ognuna ricoperta di calligrafia fitta come le foglie di un bosco d’estate, c’erano le lettere per lei. 

Chiara le sfiorò con le dita, a lungo, prima di prenderle in mano, srotolarle e cominciare a leggere. Si era portata l’abbecedario. 

Aprì le lettere e cominciò a confrontare i segni con quelli del libro. 

Cocente come il fuoco, dura come il ferro e arida come la sabbia, arrivò la delusione. 

Non si capiva niente. Non si capiva un accidenti di niente, un fico secco. La scrittura sbilenca e ossuta di suo padre non somigliava per niente alla rotondità calligrafica delle lettere dell’abbecedario. Chiara cercò disperatamente di decifrare qualcosa, ma era al di sopra delle sue esili possibilità. 

L’unico documento che forse portava l’informazione di un qualche affetto di suo padre per lei era indecifrabile. 

Concluse di essere stupida. Si mise a piangere, sconsolata. 

La luce della luna la illuminò ancora, poi scomparve oltre lo stipite della finestra e lei restò nel buio. 

Aveva imparato a leggere e non era servito. 

Aveva passato tutto il suo tempo sulle lettere dell’abbecedario, certa che poi sarebbe bastato mettere tutto insieme per sapere che suo padre le aveva voluto bene. Non era vero niente. Non aveva imparato a leggere. L’affetto di suo padre per lei avrebbe continuato a essere un segreto ben custodito. 

In quel momento le venne in mente che la mamma non le aveva lasciato niente di scritto. Forse non aveva niente da dirle. Probabilmente si era offesa per il fatto che Chiara l’aveva  uccisa. Doveva essere successo qualcosa del genere. 

Lei non valeva niente, erano Antrin e Gesciua quelli che avevano ragione, lei non valeva niente, era brutta, era stata cattiva. Imparare le lettere dell’abbecedario, agli altri serviva  per leggere. Lei aveva imparato le lettere dell’abbecedario e lo stesso non sapeva leggere. Tutto in lei era sconfitta e fallimento. 

Lei poteva uccidere coloro che amava senza neanche sapere come. 

Chiara restò a lungo seduta sul pavimento di pietra a piangere. 

Quando non ne ebbe più, si asciugò le lacrime e si alzò. Era gelata. Tremava. Rimise le lettere nella bisaccia, la bisaccia nella cassapanca, la chiave della cassapanca nella cintura della zia e se ne tornò sola e sconsolata come non mai al suo lettino. 

Chiara dormiva poco, meno di tutti i suoi cugini, anche quelli più grandi, quindi sempre sconsolata e triste si alzò ben prima dell’alba. Restò a gironzolare nei corridoi e nei cortili,  poi finalmente l’alba arrivò e con l’alba tornò l’esercito, quello che era andato a fermare gli Orchi. Si erano trascinati tutta la notte. Da quando Varil era stata in vista non si erano più fermati. La fiumana che terminava nel cortile dove Chiara si era seduta ad aspettare l’alba cominciava ben prima dell’orizzonte. Si era sparsa per tutta la città. Gli usci si aprivano.