Prima di Tolkien – i predecessori di Tolkien

Ora, appunto, non condividiamo il restringimento alle uniche fonti della mitologia celtica, il materiale da cui attinge originariamente il Fantasy britannico, ma non c’è dubbio che concordiamo nel ritenere vitale l’andare a cercare il modus operandi per scrivere Fantasy, nelle origini del genere.

Erick Rucker Eddison
Erick Rucker Eddison

Uno dei contemporanei più significativi di Tolkien fu lo scrittore inglese Erick Rucker Eddison. Nel 1922 questi pubblicò un romanzo intitolato The Worm Ouroboros (Il verme Ouroboros) in cui il personaggio principale, un uomo di nome Lessinghan, viene trasportato in un mondo alternativo chiamato Mercurius.

Tolkien dichiarò di non avere letto l’opera di Eddison sino agli anni ’40, e respinse piuttosto bruscamente qualsiasi accenno al fatto che The Worm Ouroboros potesse averlo influenzato. In effetti ci sono poche analogie fra i due libri.

JRRT ebbe modo di dichiarare, in una delle sue lettere: Ho letto le opere di [E.R.] Eddison, molto dopo che erano apparse; e una volta lo conobbi. L’ho ascoltato leggere alcuni brani dei suoi lavori nella stanza di mr. Lewis (C.S. Lewis, nda) al Magdalen College – la Mistress of Mistresses, se ben ricordo. Gli è riuscito molto bene. Ho letto le sue opere provando un grande godimento per i loro puri meriti letterari.

La opinione in merito è quasi identica espressa da mr. Lewis nel suo Saggi presentati a Charles William. Tranne che per il fatto che non mi piacciono i suoi personaggi (eccettuato Lord Gro) e disprezzo ciò che lui sembra ammirare più intensamente. Eddison  considerava «morbido»  quello che io ammiro (è una sua parola, di totale condanna, presumo). […]. Incidentalmente considero la sua nomenclatura sciatta e spesso inefficace. Nonostante tutto questo, lo considero ancora il più grande e il più convincente scrittore di «mondi inventati» che io abbia mai letto. Ma di sicuro non mi ha influenzato.

Interessante è notare che, come Tolkien e William Morris, Eddison era affascinato dalla mitologia nordica. Nel 1926 aveva pubblicato un romanzo d'ambientazione "vichinga", Styrbiorn the Strong (Styrbiorn il forte) e, come Morris prima di lui, aveva tradotto un antico racconto epico islandese, La Saga Skallagrimssomar di Egil.

Tolkien fu ammiratore di William Morris, autore scoperto forse nel 1913, all’inizio del terzo anno in cui era all’Exeter College. Quando, in autunno, vinse il premio Skeat per la Lingua inglese, una parte delle cinque sterline del premio se ne andarono per comperare una bellissima copia in cuoio di The House of the Wolflings.

Non ci sono dubbi che Morris abbia indicato la strada a Tolkien, con il suo stile elegante.

Un altro autore che influenzò l'autore de Il signore degli anelli, fu Lord Dunsany.

Il nobile irlandese Edward John Moreton Drax Plunkett, diciottesimo barone Dunsany, per tutti Lord Dunsany, nacque nel 1878 e studiò a Eton, divenne intimo amico di un suo compagno irlandese, W. B. Yeats, e scrisse circa una settantina di libri durante una carriera che si è dispiegata per mezzo secolo. Coniò il termine “al di là dei campi che conosciamo” (Beyond the Fields we Know) per descrivere il genere in cui scriveva: la rappresentazione di mondi in cui poteva accadere quasi ogni cosa e in cui le normali regole del nostro regno non vengono necessariamente applicate.

Di Lord Dunsany Tolkien ha letto sicuramente molti libri e molte storie brevi, ma non ha lasciato scritto molto sui sentimenti che gli suscitavano. Fu una passione della giovinezza, superata col tempo, dovuta anche alla poca cura nella scelta dei nomi del nobile irlandese, Tolkien criticava il fatto che Dunsany se li inventasse di sana piana i nomi.

Ciononostante, è evidente che alcuni aspetti delle storie di Dunsany restarono nel ricordo di Tolkien, probabilmente le storie dunsaniane più influenti per Tolkien furono The Hoard of the Gibbelings (Il tesoro dei Gibbelin, sorta di folletti antropofagi); The Distressing Tale of Thangobrind the Jeveller (La triste storia dell’orafo Thangobrind), in cui il protagonista incontra il raccapricciante Hlo-Hlo, l’idolo ragno, o in una delle sue storie più famose La figlia del Re degli Elfi, dove Alveric, dalla Valle di Erl va al di là dei campi che conosciamo e torna con la fatata fanciulla.

Alle origini del Fantasy – Tolkien on Fairy Stories

Per concludere questo mio intervento, "lascio la parola" allo stesso Tolkien. Ciò perché ritengo che lui abbia scritto delle parole molto importanti e rivelatrici, proprio sull'approccio dell'autore Fantasy. Qui di seguito riporto un estratto dal suo saggio On Fairy-Stories, in una specifica parte in cui l'autore rispondeva all'accusa che gli era stata posta di essere "escapista".

Facciamo un esempio: non menzionare (o non sottolinearne la presenza) i lampioni stradali di un modello in serie in un racconto, costituisce Evasione. Ma un atteggiamento del genere può, procedere da un meditato disgusto per un così tipico prodotto dell’Era dei Robot, che unisce minuzia e ingegnosità di mezzi a bruttezza e, sovente, a pessimi risultati. Ma ecco pronta la mazzata: «I lampioni ci sono e ci restano», affermano i critici.

Molto tempo fa, Chesterton osservò, che ogni volta che sentiva dire di qualcosa che era «fatta per restare», sapeva che sarebbe stata molto presto sostituita, anzi, presto considerata deplorevolmente obsoleta. «Il cammino della scienza, il cui ritmo è accentuato dai bisogni bellici, procede inesorabile…, rendendo certe cose obsolete e presagendo nuovi sviluppi nell’impiego dell’elettricità».

Il lampione elettrico può essere in effetti ignorato, per la semplice ragione che è così transitorio. E’ comunque certo che le fiabe hanno molte cose più permanenti e fondamentali di cui parlare. Il lampo, per esempio. Meno ossequiente ai capricci delle mode passeggere, l’«escapista» non fa degli oggetti i suoi sovrani o i suoi dèi, venerandoli come inevitabili o addirittura «inesorabili».

J.R.R. Tolkien
J.R.R. Tolkien

Non molto tempo fa, mi è capitato udire un docente di Oxford dichiarare che «accettava di buon grado» la vicinanza di fabbriche robotizzate per la produzione in serie e il rombo del traffico meccanico autoingorgantesi, perché ciò metteva l’università «a contatto con la vita vera».

L’idea che le automobili siano più «vive», diciamo dei centauri e dei draghi, è ben curiosa; e che siano più «reali» a esempio di cavalli, è pateticamente assurdo. Ah, quanto reale, quanto sorprendentemente viva è infatti la ciminiera di una fabbrica, se paragonata a un olmo, questa povera cosa obsoleta, inconsistente sogno di un escapista!

Per quanto mi riguarda, non riesco a convincermi che il tetto della stazione ferroviaria sia più «reale» delle nuvole; e, come manufatto, mi ispira meno leggiadria della cupola del cielo. La passerella di accesso al marciapiede quattro, ai miei occhi è meno interessante di Bifrost vigilato da Heimdall munito del Gjallarhorn. Molto di ciò che “diversi critici” definirebbero letteratura «seria», non è altro che un gioco al riparo di un tetto di vetro, sul bordo di una piscina municipale. Le fiabe possono inventare mostri che volano per l’aria o dimorano nel profondo, ma per lo meno non cercano di evadere dal cielo e dal mare.

E se per un momento mettiamo da parte la «fantasia», non credo che il lettore o l’inventore di fiabe debbano vergognarsi dall’«evasione» costituita dall’arcaicità: della preferenza accordata, non dico a draghi, bensì a cavalli, a castelli, a navi a vela ad archi e frecce; non soltanto elfi, ma anche a cavalieri, re e sacerdoti. Difatti è possibile giungere previa riflessione (del tutto slegata da favola o romanzo d’avventura) alla condanna, di cose progressive come le fabbriche, oppure le mitragliatrici e le bombe che sembrano essere i loro più naturali e inevitabili, diciamolo pure «inesorabili», prodotti.

Qui si chiude il mio intervento, a seguire quello di Cristina Donati.