- No, no... - mi giustificai, impacciato ma sincero. - Volevo solo... vedere.

- Ah – fece lei.

Soltanto. Come se fosse stata la ragione più logica del mondo. Vedere cosa?, avrebbe potuto chiedermi. O ancora: perché? Già: perché?

Tentai ancora di dileguarmi, pavidamente silenzioso a costo d’apparire maleducato, ma di nuovo la sua voce angosciata mi trattenne: - Quanta tristeza cussì, co’ ‘sto tempo. Tuto diventa ‘ncora più bruto... Quele là zò xè tombe vece. ‘Sai vece - spiegò, indicando con mano tremante i sepolcri più vicini alla fatiscente cappella.

Tirò su col naso. Prese un fazzoletto maschile dalla tasca del cappotto grigio come il mondo in cui pareva vivere. Si asciugò gli occhi.

- Ma ‘ste qua, - continuò, indicando i tumuli più vicini al ghiaioso sentiero centrale - ‘ste qua xè nove. Tropo nove - ribadì, singhiozzando. Troppo nuove. - E quel che xè più bruto de tuto, xè che ghe riposa dei muli. – Alzò gli occhi, e sembrò guardarmi per la prima volta. - Giovini come ti.

Il tono era, in realtà, solo gonfio d’angoscia, così credo, ma in me riecheggiò come una pesante accusa: io, loro coetaneo, ero vivo, loro no!

All’improvviso, un qualche meccanismo mi portò a considerare come ostile quel'ambiente fino ad allora neutrale. Volevo andarmene, fuggire. Ma per educazione e per compassione non potevo congedarmi bruscamente da quella donna anzitempo invecchiata dalla disgrazia. Ormai capivo che si stava aggrappando a me per parlare, per superare almeno un momento di solitudine. Non potevo tirarmi indietro. Non senza provare rimorso. Non senza tirarmi addosso la collera dei morti.

- Non è giusto morire giovani – buttai lì una frase retorica, circostanziata, quasi un’ipocrisia da parte di chi, solo una manciata d’ore prima, aveva più che sfiorato l’idea del suicidio.

- No, no xè giusto - confermò lei, stancamente. Indicò una tomba. Una tra le più povere. Il tumulo di terra rossastra, un mazzo di fiori freschi, una piccola lastra marmorea con sopra incastonata un’esile croce stilizzata, una foto del defunto (un viso sorridente... perché cazzo sorridono sempre i volti nelle foto dei morti?!), un nome (che trovo giusto omettere) e due date. Maledettamente vicine l’una all’altra: 21.3.1966 - 17.10.1987.

1966: come me, con qualche mese in più. 21 ottobre 1987: poco più d’un mese prima.

- Lui xè mio fio.

Lui è mio figlio. E’. Quelle parole, e in particolare quel verbo coniugato al presente, penetrarono nel fondo dell'animo, scavarono un fertile solco nel mio ego. Uno schiaffo. Ma anche un insegnamento da trasmettere.

E io, io avevo osato pensare al suicidio! E per che cosa, poi?

- Un incidente? - chiesi cauto. Me lo sentivo ch’era così.

- . - Puntuale l’attesa conferma. - Lu e i altri do’ muli. Sui veci amici. Li conosevo ben anche mi... Come fioi, i iera, per mi... Un groso camion in sorpaso, de l’altra parte de la strada, xè rivà drito ne la corsia de lori... Mama, vado a balar, farò tardi, no sta star in pensier, tanto te sa che Yure guida tranquilo. Cussì el gaveva dito... Povero Giorgio, lu guidava tranquilo... Nissun. ‘Desso no go più nessun. Mio mari xe morto in cantier, tanti ani fa. Mi son sola... Prego Idio e la Madona che i me cioghi presto…

Non riuscì a continuare. Distrutta. Senza più nemmeno la forza di piangere. Avrei voluto dire qualcosa. Rincuorarla. Ma chi ero io per poterla aiutare? Come riuscire a confortarla, a lenire un minimo della sua angoscia con le semplici parole? E soprattutto, chi ero io, che mi ero intromesso nel suo strazio?

Ero un estraneo. Questo ero.

Volevo andarmene. Subito. Svignarmela. Ma avvertivo decine di occhi ipnotici e invisibili osservarmi e giudicarmi da quelle tombe. Mi ammonivano. Altrettante braccia inconsistenti, eppure in qualche modo tangibili, protendevano le loro gelide mani, cercando di trattenermi. Dovevo dare un mio tributo. Quale, però?

Accidenti: perché m’ero cacciato in quella situazione?

Ancora una volta, fu Magda a salvarmi.

Basta! Mi parve di udire la sua voce dentro la testa. Di colpo i fantasmi evocati dalla mia mente o dal mio cuore disparvero, liberandomi dal peso (illusorio?) di quegli sguardi ultraterreni.

Sentii la sua mano poggiarsi piano, per non spaventarmi, sulle mie spalle, e la sua voce amica affermare: - Ero stufa di aspettarti in macchina. Vieni, andiamocene.

Io la fissai, lo sguardo colmo di rinnovata riconoscenza.

- Aspetta - feci. Le voltai le spalle e andai verso la sfortunata signora. In silenzio, le presi la sua mano destra tra le mie. Una mano callosa, rugosa, fredda. Una mano stanca, spenta, svigorita. Morta. Morta assieme al figlio.

Poi, la lasciai e mi avvicinai alle tre tombe. Su ognuna di esse mi soffermai qualche istante, in un tacito commiato a quei sfortunati ragazzi. Poi me ne andai, stringendomi contro la mia amica. Avevo bisogno di sentirne il calore.