Si torna al folklore con Puck il folletto (1906) di Rudyard Kipling, in cui Puck, ultimo rappresentante del Popolo delle Colline, “la più vecchia delle Vecchie Creature d’Inghilterra”, intrattiene i due fratellini Dan e Una con una serie di leggende sul passato dell’isola. Attraverso Puck – folletto protagonista di Sogno di una notte di mezza estate di Shakespeare – Kipling ripercorre tutte i periodi della storia inglese, condendoli con elementi fantastici. Leggiamo così di Welard il fabbro, mastro forgiatore vissuto sull’isola prima della conquista normanna e citato in antichi racconti norreni e germanici – secondo alcune fonti avrebbe modellato la cotta di maglia di Beowulf e la spada di Orlando, Durlindana; di Parnesio, centurione nella Settima Coorte della Trentesima Legione Ulpia Victrix, di stanza al Vallo d’Adriano; dell’esodo delle Fate, fuggite nel 1500 dall’Inghilterra a causa delle crudeltà perpetrate durante i conflitti religiosi. Alle vecchie leggende d’Irlanda si rifà invece La pentola dell’oro (1912) di James Stephens, amico fraterno di Joyce, a metà strada tra conte philosophique e fairy tale, che narra con ironia dell’alterco tra un clan di Leprecauni, antipatici folletti silvani, e la famiglia di un filosofo.

Del 1946 è il Tito di Gormenghast di Mervyn Laurence Peake, primo capitolo di una trilogia che continua con Gormenghast (1950) e Via da Gormenghast (1959) – cui è da aggiungersi Titus Awakes, incompiuto e inedito in Italia. Per la sua congenita refrattarietà alle etichette tradizionali, C.S. Lewis istituì per essa la nuova categoria del “Gormenghastly” – gioco di parole tra Gormenghast, nome della babelica città-castello dove si svolge la storia, e ghastly, “orrido”, “spaventoso” – meravigliandosi “di come prima potessimo vivere senza di essa”. Oggi, la critica la considera il primo esempio di “fantasy di costume”, per il suo intreccio di elementi fantastici e personaggi da commedia dell’arte. Fulcro della vicenda è la nascita del settantasettesimo erede al trono di Gormenghast, Tito de’ Lamenti, che scatena una serie di intrighi e cospirazioni che sconvolgeranno la cerimoniosa routine di corte. Dire di più, è impossibile. La trama riflette l’architettura labirintica di Gormenghast, aprendosi in complesse sottotrame. E così pure i personaggi, esagerati, caricaturali, sempre sopra le righe. La stessa scrittura di Peake si svolge in una sintassi contorta nella quale dominano le proposizioni subordinate, prolissa oltre ogni limite, ampollosa, affascinantissima. Più di ogni altra qua citata – se mai è possibile un confronto di questo tipo – la trilogia di Gormenghast è un’opera unica nel suo genere.

Arriviamo, ora, ai due autori più noti della nostra ideale biblioteca, Clive Staples Lewis e John Ronald Reul Tolkien: entrambi inglesi, entrambi professori di letteratura all’Università di Oxford, entrambi esperti di mitologia, avevano letto tutti i testi fin qui menzionati e da essi svilupparono le proprie originali mitologie – in alcune occasioni la loro passione prese la forma di riscrittura di leggende antiche: per Lewis quella di Amore e Psiche nel romanzo A viso scoperto (1956); per Tolkien quella di Sir Gawain e il Cavaliere Verde, ripubblicata nel 1925 con lo stesso titolo. Lewis oggi è noto innanzitutto per la saga fantasy delle Cronache di Narnia. Prima di questa, però, lo scrittore s’era già dedicato a una storia a puntate, la cosiddetta Trilogia dello spazio, composta da Lontano dal pianeta silenzioso (1938), Perelandra (1943) e Quell’orribile forza (1946). Vi si narrano le vicende del filologo Elwin Ransom su Malacandra (Marte), Perelandra (Venere) e Thulcandra (la Terra); dove fa la conoscenza di bizzarri animali intelligenti e parlanti; parla con gli arcangeli protettori dei pianeti; lotta contro l’INCE, agenzia terroristica che attraverso l’ingegneria genetica vuole sacrificare l’umanità per dar vita a una nuova specie dominante; assiste al ritorno di Merlino e delle antiche divinità sulla Terra. Per Lewis la fantascienza non era solo viaggi spaziali e tecnologie avveniristiche, ma la più moderna forma di mitopoiesi – cioè, di creazione di miti – e quindi poteva trattare anche di dèi, spettri, dèmoni, fate e mostri.