La carovana partì all’alba, avvolta nella nebbia e accompagnata dalle maledizioni degli operai, diretti in lunghe file verso l'immenso cantiere-prigione. Gli arruolamenti forzati proseguivano senza sosta.

Il viaggio verso Guarto fu lungo e avventuroso.

Scesero la valle del fiume Teuden sino alla confluenza con il Torr e da lì per due mesi viaggiarono lungo la Strada Maestra. La città portuale di Hormuz era protetta alle spalle dal delta del fiume, un insieme di paludi malsane, infestate da rettili e insetti. Decanor acquistò chiatte e si fece guidare dai barcaioli attraversano i mille dedali del delta sino al Lago interno, figlio del grande fiume e dell'Oceano. In lontananza, come bolle d'oro, scintillavano le cupole di Hormuz.

La città era circondata da spesse mura di mattoni sormontate da merlature in rame, con un’unica porta fluviale che consentiva l’ingresso alle imbarcazioni provenienti dall’entroterra. 

Tre giorni dopo, con un sospiro di sollievo, le autorità portuali salutarono il mercantile appena acquistato e ribattezzato “Gloria di Altea”, mentre usciva a vele spiegate dal porto. Decanor aveva pagato il giusto prezzo, assoldando anche marinai locali e una guida dell'arcipelago esterno.

— Sarà un lungo viaggio — ammonì la guida indicando il mare aperto — Solo i capitani più coraggiosi arrivano a Guarto. Solo i più fortunati tornano a casa.

Navigarono per tre mesi, lunga una rotta nota solo a marinai esperti. 

Il mare aperto, limpido e azzurro, si tramutò dopo qualche settimana in una distesa immobile rosso fuoco, costellata di isolotti vulcanici e infestata da alghe carnivore che si cibavano di uccelli e pesci morti per le esalazioni. I marinai portavano sul viso fazzoletti impregnati di una mistura profumata, e consumavano i pasti in ambienti sigillati, tra il puzzo di sudore e l’odore rancido dei cibi cucinati.

Forti brezze marine, fredde e frizzanti, pulirono alla fine l’aria, con sollievo generale. Ben presto, però, si tramutarono in venti selvaggi che strapparono le vele e alzarono enormi onde, facendo rollare paurosamente la nave per giorni. Quando il mare finalmente si placò, le navi dovettero attraversare nuvole basse cariche di umidità malsana e sciami di insetti così numerosi da annerire le vele e rendere immangiabili le scorte di cibo.

Infine, un mattino, il cielo tornò azzurro e arrivò l’atteso annuncio.

 — Le isole dell’Arcipelago! 

 I marinai affollarono le murate, salutando con urla di gioia e fischi di approvazione il meraviglioso panorama.

Sotto un sole accecante navigarono tra atolli dalla spiaggia bianca e il cuore verde, barriere coralline sommerse e banchi di sabbia pieni di conchiglie rosse e arancio. La stiva si riempì di acqua pulita, frutta e cacciagione fresca. 

Un giorno, finalmente, avvistarono all’orizzonte un pennacchio di fumo sopra una montagna a forma di cono.

Guarto!

Il veliero entrò nel piccolo porto. 

La città era abbarbicata alle pendici del vulcano. Casette dai tetti a cupola costruite una sull’altra in pendenze incredibili, affollate attorno all'unica baia. Il resto dell'isola era deserto e percorso da spaccature e canali scavati dalla lava.

La roccia vulcanica era nera e porosa. Sembrava impossibile trovare in quella piccola isola un giacimento di origine diversa. 

Eppure fu subito evidente il contrario.

I tetti, i muri, le cupole e colonne degli edifici, persino le banchine del porto erano costruite con una pietra verde, quasi vetrosa, dall'aspetto solido e luccicante. La città, al sole di mezzogiorno, era simile a un pugno di smeraldi posati sul velluto nero. 

Dove non brillavano mille sfumature di verde rilucevano maioliche bianche e porpora, incorniciate nella grezza cornice del vulcano.

Decanor, sceso dalla nave, osservò i blocchi che formavano il porto. Non c’era traccia di connessioni. Si piegò, cercando di scalfire con il pugnale la superficie. Con lui era sbarcato anche Smirer il Minatore, esperto di rocce e terreni. Il resto della ciurma rimase confinato a bordo.

Un solerte funzionario della dogana, con un colpo di tosse, interruppe le sue indagini. Indossava un’uniforme rossa a bande nere e un cappello a tuba. Tirò fuori un registro e un pennino chiedendo in tono petulante:

— Cosa vi porta nella nostra città stato? 

— Sono un mercante di conchiglie e spezie, proveniente dal lontano Continente, in sosta a Guarto per comprare cibo e acqua e conclude affari — rispose Decanor con voce umile. Aveva preparato da tempo quel discorso.

L'aria affaticata, la nave malmessa e le vele sbrindellate avvaloravano la sua tesi. Il funzionario proseguì con una lunga serie di domande, scrivendo ogni volta appunti e sbarrando caselle. Alla fine riempì l’ultima riga libera e sentenziò soddisfatto: