Emma non vedeva l’ora di lasciarsi alle spalle i sei anni che la separavano ancora dai diciotto, età in cui avrebbe potuto viaggiare per il mondo dando la caccia ai demoni ed essere temprata nel fuoco. Si allacciò la spada a tracolla e uscì dallo spogliatoio, fantasticando su come sarebbe stato. Si vedeva in cima ai promontori oceanici di Point Dume, impegnata a tenere a bada con Cortana un manipolo di demoni Raum. Julian era con lei, ovviamente, e brandiva la sua arma preferita, la balestra.

Nella mente di Emma, Jules c’era sempre. Lo conosceva da tempo immemore. I Blackthorn e i Carstairs erano sempre stati vicini, e Jules aveva appena qualche mese più di lei: poteva dire di non essere mai vissuta in un mondo senza la sua presenza. Aveva imparato a nuotare nell’oceano con lui quando erano ancora piccolissimi. Avevano imparato a camminare e poi a correre insieme. Era stata presa in braccio dai genitori di Jules e sgridata da suo fratello e sua sorella maggiori quando con lui aveva disobbedito. Ed era capitato tante volte. Tingere di azzurro il pelo soffice e bianco di Oscar, il gatto dei Blackthorn, era stata un’idea di Emma, a sette anni. Julian si era preso la colpa, come faceva spesso. Dopotutto, le aveva fatto notare, era figlia unica, mentre loro erano sette tra fratelli e sorelle: i suoi genitori si sarebbero dimenticati di essere arrabbiati con lui molto prima di quanto sarebbe capitato a lei.

Emma ricordava quando la madre di Jules era morta, subito dopo la nascita di Tavvy, e di come lei gli avesse tenuto la mano mentre la salma bruciava nei canyon e il fumo saliva su fino al cielo. Ricordava che lui aveva pianto, e lei aveva notato quanto fosse diverso il pianto dei maschi rispetto a quello delle femmine, singhiozzi aspri che sembravano strappati fuori dalla gola con gli uncini. Forse per loro era peggio, perché proprio in quanto maschi, teoricamente non potevano piangere...

— Oh! — Emma barcollò all’indietro. Era così assorta nei suoi pensieri da essere andata a sbattere contro il padre di Julian, un signore alto con gli stessi capelli castani arruffati di gran parte dei suoi figli. — Mi scusi, signor Blackthorn!

Lui sorrise. — È la prima volta che vedo qualcuno che ha tanta voglia di andare a lezione — commentò, mentre lei già sfrecciava via lungo il corridoio.

La palestra era uno dei suoi posti preferiti. Occupava quasi un piano intero, e le pareti rivolte a est e a ovest erano vetrate. L’azzurro dell’acqua entrava praticamente da ogni angolazione. La curva della linea costiera era visibile da nord a sud, con la sconfinata distesa del Pacifico che si perdeva verso le Hawaii.

In piedi al centro della sala, sul pavimento in legno lucidissimo, c’era la tutor della famiglia Blackthorn, una donna imperiosa di nome Katerina; in quel momento era impegnata a insegnare ai gemelli come si lanciano i coltelli. Livvy seguiva le istruzioni con diligenza, come

sempre, mentre Ty era scuro in volto e non sembrava affatto bendisposto.

Julian, con la sua tenuta leggera da allenamento, era sdraiato sulla schiena lungo la vetrata a ovest. Stava parlando con Mark, che invece affondava la testa tra le pagine di un libro, facendo il possibile per ignorare il fratellastro minore.

— Secondo te il nome “Mark” non suona sbagliato su uno Shadowhunter? — stava dicendo Julian quando Emma si avvicinò. — Pensa se dovessi dire: «Mettimi un Marchio, Mark».

Mark sollevò la testa di capelli biondi dal libro che stava leggendo e fulminò il fratello minore con un solo sguardo. Julian aveva uno stilo in mano e lo faceva girare e rigirare pigramente tra le dita. Lo impugnava come un pennello, abitudine che Emma gli rimproverava sempre, perché uno stilo va tenuto come uno stilo, ovvero come un’estensione della mano, non come lo strumento di un artista.

Mark sospirò con aria teatrale. Dall’alto dei suoi sedici anni, era più grande di Emma e Julian abbastanza da trovare irritante o ridicola qualunque cosa loro facessero. — Se ti disturba tanto, puoi sempre chiamarmi con il mio nome completo.—

— Mark Anthony Blackthorn? — Julian arricciò il naso. — Ci vuole un sacco di tempo per dirlo tutto. E se ci attaccasse un demone? Non farei in tempo a pronunciarnemetà che saresti già morto.

— Stai pensando a una situazione in cui saresti tu a salvare me? — chiese Mark. — Non ti sembra di correre un po’ troppo con la fantasia, nessuno che non sei altro?

— Invece potrebbe succedere. — Julian, poco felice di quella definizione, si alzò in piedi.