Un lui si nota, una lei si ignora. E noi vogliamo essere ignorate.

Dovessi riassumere il mio giudizio in una frase, il sequel (o spin off?) della Ocean’ Saga, Ocean's 8 di Gary Ross è un po’ come un pacchetto di Fonzies non mangiate a regola d'arte: godi solo a metà, recitava lo spot. 

Essendo un heist movie la trama vien da sé, ed è oggettivamente ben strutturata. Per quanto la risoluzione sia da copione il come arrivarci è ben congeniato e con un buon ritmo ottenuto anche attraverso una lodevole stesura dei dialoghi, una caratterizzazione intelligente dei personaggi che permetterà di guardare con sincera benevolenza anche ai passaggi più azzardati, al limite dell’assurdo (come da genere, del resto).

Nulla da dire sul cast, anzi: abbiamo una delle migliori bande al femminile come non si vedevano da un po’ sullo schermo. E non è tanto il clamore dei nomi che, comunque, ha il suo perché. Sandra Bullock - che a chi piace sicuramente qui piacerà ancora di più – è una buona capofila insieme a Cate Blanchett, in una versione boss glam rock; Helena Bonham Carter riuscirebbe a rendersi credibile anche se stesse in silenzio per tutto il film, ma qui l’interpretazione di una frustrata e insicura stilista riesce a calzarle a pennello. Stupisce Rihanna, che recita meglio di quanto (a mio parere) canti. Anne Hathaway dimostra ancora una volta un interessante quanto stupefacente talento se nel ruolo giusto. Stanno al passo Mindy KalingAwkwafina, esordienti rispetto al resto del cast, riuscendo a tenere il ritmo.

Last but not least, Sandra Paulson è diventata una mammina in salsa Dr Jeckill e Mr  Hide dal volto angelico a cui si sarebbe potuto dare anche più spazio.

Ecco. È proprio questo il punto. Più spazio, meno sprechi, qualcosa in più. Pertanto, cosa non ha funzionato? La mancanza di tensione, che sfocia nella prevedibilità. Il difetto di Ocean’s 8 è proprio il non dare niente di più di quanto, potenzialmente – si sente proprio dal trascorrere della pellicola – si sarebbe potuto avere.

Il rischio, in più, è che sia etichettato come un film da femmine, apprezzato dalle glam babies lettrici di Cosmopolitan e nostalgiche della serie di Carrie Bradshaw & co. Una commediola divertente, meno sboccacciata e più politically correct, quasi bon ton, con interessanti picchi di humour e giri di parole che, sicuramente, nella versione originale si potranno apprezzare al meglio (il doppiaggio è abbastanza pietoso, a causa di una scelta piuttosto piatta delle voci)… ma basta così. Ed è un peccato perché la stessa storica Margot – Fujiko, oltre a far girare la testa ad Arsenio Lupin e a tutti gli uomini che incontrava, era molto più scaltra, acuta e per niente pasticciona rispetto allo storico compagno.

Peccato, Gary Ross. Peccato, Olivia Milch, cosceneggiatrice evidentemente troppo acerba. Probabilmente Steven Soderbergh (qui solo produttore) avrebbe potuto fare di meglio e qui l’intento (seppur non voluto) di far ignorare queste donne è quasi riuscito. Penso che alla regia ci sarebbe stata meglio una donna, tipo Susanna Fogel (che presto arriverà al cinema con The Spy Who Dumped Me, di cui vi parleremo): entrare nella mente di (addirittura) otto donne, per il regista di Hunger Games, mi si permetta di constatare che sia stata una mossa un po’ troppo azzardata. Neanche con l’aiuto della Milch.

Manca introspezione, manca tensione, manca quel senso di orgoglio che ha fatto alzare Meryl Streep durante il discorso ispirante di Patricia Arquette agli Oscar del 2015, manca una caratterizzazione più concreta, di cui qui si sente solo il profumo. Non basta sfatare falsi miti (usando la Hathaway o Rihanna) o pensare che basti la fierezza del paid my dues (nella fattispecie la Bullock) per accennare alla parità. Se l’intento era di dare una lettura un po’ radical chic, potrebbe essere riuscito, ahimé, ma non farà di Gary Ross un regista alla pari di Herbert Ross (Fiori d'acciaio) o Hugh Wilson (Il club delle prime mogli).

Difficile controllare otto figure femminili così forti, potenzialmente carismatiche e determinate da script, di così evidente talento nella realtà. Tuttavia, paradossalmente, le donne lo hanno saputo incastrare. E hanno vinto, ma solo a metà.