Negli ultimi dieci anni sembra sia esplosa la moda dei lungometraggi che abbracciano l'archetipo dei “loop” temporali: Edge of Tomorrow, Source Code, Palm Springs, Boss Level. Ora a questa lista si aggiunge anche A Day, film coreano che promette di stravolgere la formula grazie alle sue differenti radici culturali e a una trama profondamente drammatica, ma che poi finisce irrimediabilmente per perdersi per strada.

Trama

Il chirurgo Kim Joon-Young (Kim Myung-Min) è un medico di fama internazionale, un filantropo che gestisce una rete ospedaliera attiva nelle aree più disastrate del mondo, ma anche un padre tanto premuroso quanto assente. Rientrato in patria, l’uomo finisce col divenire l'impotente testimone della morte di sua figlia (Jo Eun-Hyung), deceduta dopo essere stata gravemente colpita da un taxi impazzito.

Non ancora ripresosi dal trauma, Joon-Young si ritrova improvvisamente a riaprire gli occhi sul volo che lo aveva riportato a casa e a dover rivivere da capo l’intera mattinata. Tutto si ripete come previsto, compreso il tragico epilogo. Il ciclo ricomincia da capo, molteplici volte, con il medico che cerca disperatamente di alterare gli esiti della situazione, fallendo ogni singola volta.

La situazione cambia quando, quasi per caso, Joon-Young scopre di non essere l’unico individuo bloccato all'interno di questo girone infernale. Assieme a lui c’è infatti anche un autista di ambulanze (Byun Yo-Han) il quale sta cercando a sua volta di prevenire un lutto che è inspiegabilmente legato al passato del celebre chirurgo.

Tecnica

Nell'affrontare un’analisi tecnica di A Day bisogna esplicitare un'importante premessa: si tratta del primo lungometraggio di Cho Sun-Ho, fino a oggi assistente alla regia. Tenendo conto che Sun-Ho ha ricoperto a lungo un ruolo che non necessariamente fornisce un bagaglio di esperienza adeguato a mettersi al comando di una regia, i risultati sono straordinari: la pellicola fluisce senza intoppi, anche grazie alla fotografia discreta di Ji-yong Kim, il quale si è fatto le ossa come tecnico sui set di Parasite e Okja, entrambi dall'ormai famosissimo Bong Joon-Ho.

Complessivamente il lungometraggio può vantare alcune scene ben studiate, sorprendentemente gradevoli nella loro semplicità, peccato che poi vada anche a sondare il mondo degli effetti speciali digitali, al che gli standard crollano fino a rasentare i film action di Bollywood e sfiorano il comico.

Non aiuta il fatto che il testo del film, firmato da Sun-Ho stesso, non sia particolarmente solido o profondo. L’intera trama si presterebbe bene a una lettura puramente allegorica e introspettiva, tuttavia sembra quasi che il regista abbia voluto rinnegare la dimensione interpretativa per offrire uno spaccato “oggettivo”, giustificando i limiti patiti dai protagonisti con pretesti estremamente nonsense e anticlimatici. 

A questo si somma una minuscola dissonanza culturale che, nel contesto, diviene gigantesca: il fatto che i protagonisti di un film incentrato su di un inevitabile incidente stradale continuino imperterriti a usare lo smartphone mentre guidano. Stando al Korea Time, il 90% dei coreani inviano messaggi mentre sono al volante, un atteggiamento rischioso a cui il regista non presta grandi osservazioni critiche.

Attori

Difficile commentare le doti attoriali schierate in campo, se non altro perché il film ci è stato presentato sotto un doppiaggio che sovrasta ogni elemento della pellicola. E non un doppiaggio qualsiasi, uno atroce. In molti casi la recitazione italiana stona particolarmente con quanto visto su schermo, ancor più se si considera che il volume del parlato è regolato una spanna al di sopra del resto del sonoro.

Sarebbe facile buttarla in caciara e dare la colpa ai doppiatori incapaci, ma la sensazione è che il problema sia ben più profondo e che chi di dovere si sia trovato a dover lavorare senza una direzione competente o, cosa più probabile, sotto al giogo di tempistiche molto contenute. Il difetto è particolarmente evidente nel doppiaggio della figlia del protagonista, la quale diviene letteralmente insopportabile con il risultato che le sue ripetute morti risultano quasi più catartiche che drammatiche.

Conclusioni

Dare vita a un film sui loop temporali che sia veramente degno di nota non è affatto semplice, soprattutto se ci si vuole assicurare che quel film sia drammatico. Cho Sun-Ho non è riuscito nell'impresa. Ha partorito un lungometraggio tutto sommato fruibile, ma incapace di fornire una base emotiva o intellettuale che sia di stimolo o che promuova visceralmente la morale banalotta che la trama vorrebbe calcificare nello spettatore. Il tutto è dunque affossato da una traduzione profondamente inadeguata che trascina a picco l’intera esperienza. A Day potrebbe essere un buon passatempo per una serata sul divano, ma non viene voglia di cercarlo sul grande schermo.