Nel 1945, mentre l’Europa porta ancora le ferite fresche della guerra, il mondo osserva con trepidazione l’avvio del processo di Norimberga, il primo grande tribunale internazionale della storia. Al centro degli interrogatori preliminari c’è il tenente colonnello Douglas M. Kelley (Rami Malek), brillante psichiatra dell’esercito americano, incaricato di valutare la sanità mentale dei principali gerarchi del Terzo Reich per stabilire se siano in grado di affrontare il giudizio. Tra i suoi pazienti emerge una figura che domina la scena: Hermann Göring (Russell Crowe), ex comandante della Luftwaffe, uomo di potere, manipolatore, ancora convinto del proprio carisma e della propria visione del mondo. Da principio Kelley è convinto di poter capire la psiche di Göring, cercando di farselo amico per poter in tal modo scrivere un libro sui criminali nazisti, una volta tornato in America, su quanto sia ambiguo il male.

Già nel 1961 con Vincitori e Vinti, il processo di Norimberga, nato con l’intento di mettere sotto accusa davanti al mondo i crimini compiuti dai nazisti durante la seconda guerra mondiale, venne preso da Hollywood come metafora per raccontare qualcosa sulla modernità. Il film di Stanley Kramer, ambientato nel 1948, si concentrava sul tribunale e sulla responsabilità morale di giudici e giuristi tedeschi che avevano permesso al nazismo di trasformare la legge in strumento di oppressione. Un’opera costruita come un grande dramma giudiziario, in cui il confronto dialettico sostituisce l’azione e la domanda centrale è una sola: fino a che punto un individuo può dirsi innocente se ha contribuito, anche solo con la propria firma, alla costruzione di un sistema criminale? Nel 2025 lo sguardo cambia radicalmente e James Vanderbilt con il suo Norimberga (di cui ha scritto anche la sceneggiatura) usa il confronto tra lo psichiatra americano Kelley e Göring per mettere in scena un duello psicologico che esplora la natura del male, la seduzione del potere e l’inquietante normalità di chi ha orchestrato atrocità su scala mondiale. Dove Vincitori e vinti ragionava sull’etica delle istituzioni, Norimberga scruta l’abisso dell’individuo.

I due film mettono in scena facce diverse della stessa storia: da un lato la ricerca di giustizia, dall’altro la volontà di capire come uomini apparentemente razionali abbiano potuto aderire a un progetto distruttivo. Un’idea molto interessante questa per capire soprattutto come il cinema, utilizzando un fatto storico rifletta sempre, necessariamente sul presente. Se sono cambiate le prospettive, da un punto di vista stilistico Norimberga ricorda invece molto la Hollywood classica, pensiamo alla sequela di scene madri o la scelta di far procedere la storia per dialoghi chiave tra personaggi più che per azioni. I personaggi risultano un po’ bidimensionali (ma non semplicistici), facili da capire nelle loro dinamiche per lo spettatore e funzionali alla storia. In questo senso è evidente che ciò che preme a James Vanderbilt è riflettere sul presente e su come personalità autoritarie possano riemergere. L’invito è quello di riconoscere i segnali del potere manipolatorio in cui il male non è un mostro irrazionale, ma una costruzione umana che può sembrare normale, persino gradevole.