A causa di un grave incidente subito da bambina, Alexia ha una placca di titanio conficcata nel cranio. Una volta cresciuta non fa nulla per nascondere l’evidente cicatrice, che anzi sembra accrescere il suo fascino da ballerina erotica in un salone di automobili. Gli uomini la desiderano, le chiedono autografi e le fanno avances audaci ma Alexia sa come difendersi, non avendo nessuna remora ad uccidere. Ciò che la motiva però non è l’autodifesa perché ammazza anche chi non le ha fatto nulla, tanto da essere costretta a scappare dalla città in cui vive. Per evitare la polizia si finge Adrien, il figlio scomparso di Vincent, e nonostante sia sempre più difficile mantenere l’identità di un ragazzo visto che è in cinta, sente che qualcosa la lega all’uomo.

Palma d’Oro al Festival di Cannes 2021, Titane è il secondo lungometraggio della regista francese Julia Ducournau che aveva esordito un paio di anni fa con Raw – Una cruda verità, con cui è riuscita ad impressionare tanto la critica quanto il pubblico. Così come già il suo lavoro precedente anche in Titane, di cui ha scritto la sceneggiatura, si diverte a mischiare i generi, con un trash horror che schizza l’occhio da una parte a Neon Demon di Nicolas Winding Refn, e dall’alta a Crash di David Cronenberg. L’intento è quello di giocare con lo spettatore, di forzarne la visione senza mai portarla all’estremo, senza mostrare troppo ma facendo intuire le situazioni più disturbanti. Ducournau crea un personaggio che non lascia spazio all’empatia, una specie di essere privo di morale e motivazioni che inizia ad uccidere senza una spiegazione apparente. Ma è proprio in questa mancanza di logica, così come impossibile è il concepimento del figlio di Alexia, che nasce la fascinazione per una pellicola come Titane. Anche il corpo di Agathe Rousselle gioca in questo un ruolo importante, poiché riesce ad essere al contempo bello e brutto, piagato e con il ventre gonfio sotto il quale cresce una calotta di metallo, deformato dalla cicatrice che ha sulla tempia ma provocante, maschile e, allo stesso tempo, femminile.  

Nella prima parte del film il ritmo è quello incalzante del thriller con derive da comedy, nella seconda con l’entrata in scena del pompiere Vincent, tutto si placa compresa la voglia di sangue della protagonista per trasformarsi in una sorta di melò. È nella vicinanza di questi due personaggi che il film si perde, perché la violenza di Alexia, pura e insensata nella ricerca di una propria individualità fuori dagli schemi che passa addirittura attraverso la trasformazione del corpo, si offusca nell’incontro con l'uomo. Questi, vittima di un dolore comprensibile, normalizza il discorso riportando tutto su un piano più convenzionale. A differenza del cinema di Cronenberg (quello della prima parte della sua carriera) dove il tema della trasformazione del corpo e della convivenza nell’era moderna tra organico e meccanico, era sempre anche politico, la Ducournau si limita a voler scioccare il pubblico con delle immagini conturbanti. Proprio per questo quando il film si normalizza è inevitabile che perda non solo in forza ma anche in motivazione.

Julia Ducournau è senza dubbio una regista con una propria idea di cinema e con una capacità tecnica notevole, come nel piano sequenza nel salone delle automobili con la presentazione di Alexia da adulta. Manca però un discorso organico, che abbia l’audacia o di imboccare la strada di un’autorialità originale, o di una storia con qualcosa da dire al di là della forza estetica.