Alpha ha tredici anni ed è un’adolescente un po’ ribelle: va alle feste, si ubriaca e una sera si ritrova sul braccio un tatuaggio fatto in casa da un altro ragazzino. Una bravata da poco conto, se non fosse per un virus mortale che circola, capace di trasformare la gente in pietra e trasmettersi col sangue. La madre single di Alpha, che fa il medico, è preoccupatissima per lei e le fa immediatamente fare un test. Intanto, nella classe della ragazza si diffonde subito la voce che sia malata. A complicare le cose è l’arrivo dello zio Amin, che Alpha aveva conosciuto da bambina ma che non vede da anni, e di cui sembra non ricordare nulla. L’uomo è un tossicodipendente in cerca di disintossicazione e per questo va a vivere dalla sorella, che aveva già tentato più volte di salvarlo. Nonostante tutto, tra Alpha e Amin nasce una connessione particolare, legata forse a un passato ancora vivo nell’ombra.

Julia Ducournau, dopo aver vinto la Palma d’Oro con Titane, torna in concorso nel 2025 al Festival di Cannes con Alpha, ricevendo però critiche meno entusiastiche rispetto al passato. Anche in questa pellicola la regista francese affronta i suoi temi prediletti: l’ibridazione del corpo e il body horror, ma in chiave più intimista. Se Titane appariva come un lavoro estremo, Alpha sembra voler addomesticare la brutalità, riprendendo gli stessi paradigmi (già presenti anche in Raw – Una cruda verità), ma in forma più edulcorata. Non c’è quasi nessuna scena visivamente respingente (con l’eccezione, e non da poco, della scorificazione della schiena di pietra di Amin), ma basta il sangue di Alpha, forse infetto e per questo minaccioso, a generare una tensione che Ducournau sfrutta senza bisogno di eccessi. Emblematica la scena della piscina: il sangue della ragazza ferita si allarga sull’acqua e i compagni, terrorizzati, nuotano via come se fosse questione di vita o di morte.

La malattia che rende gli uomini pietra richiama ovviamente il virus dell’AIDS, e i flashback — considerando vestiti e acconciature — sembrano ambientati negli anni ’80 e ’90. Anche qui, però, il deperimento del corpo non ha risvolti macabri: la carne non marcisce ma si trasforma in marmo, riducendo quasi il malato a opera d’arte. Eppure Alpha mantiene una dimensione disturbante in cui la decomposizione corporea lascia spazio a quella mentale. La cannibalizzazione non è più un atto fisico, un’unione tra organico e inorganico: è la mente a subire l’ibridazione, con il tempo — guidato dalla malattia — a generare il vero senso di “mostruoso”. Per questo la Ducournau sceglie di non ricorrere a immagini estreme, ma a un linguaggio fatto di abbracci, piani sequenza, camminate notturne e tempeste di sabbia rossa, riuscendo comunque a dar vita a un film duro quanto i precedenti.

Alla fine della storia, quando il puzzle si ricompone, emerge un discorso stratificato come la pietra di cui sono fatti i corpi dei malati. Il virus diventa un modo per riflettere sulla società contemporanea, sulla paranoia e sull’ostracismo, sull’impossibilità di accettare la malattia sia a livello personale che collettivo. L’unico antidoto è l’estrema empatia: non il semplice amore, ma la capacità di provare sulla propria pelle che cos’è la sofferenza.
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