– A questo punto – spiegò Orda al khan, – abbiamo quasi la certezza che non sta mentendo. I cristiani temono troppo il loro inferno per commettere uno spergiuro.

– Stupidi – commentò Tossuc. – Io non temo niente, né in questo mondo né nell’altro – e il suo tono indicava che non si trattava di una semplice millanteria.

– Probabilmente dici il vero – concluse Tossuc, rivolto ad Argyros. – E allora non ti dispiacerà dirmi tutto quello che sai sull’esercito romano. – Si inchinò ironicamente e indicò al prigioniero di entrare nella tenda.

– Non calpestare la soglia – lo ammonì Orda. – Ti costerebbe la vita. Inoltre, finché resti con noi non devi urinare nelle tende, toccare il fuoco con un coltello, rompere un osso con un altro osso, né versare per terra latte o qualsiasi altro cibo. Sono tutti gesti che offendono gli spiriti e solo il sangue può cancellare simili offese.

– Ho capito – annuì Argyros, che aveva già sentito parlare di quelle usanze.

Non era mai entrato nella tenda di un khan e rimase colpito dalla lussuosità dell’ambiente. Alcuni oggetti provenivano sicuramente dai saccheggi a nord del Danubio: vasi sacri d’oro e d’argento, stoffe ricamate, sacchi di pepe e di cannella, vasi di porpora. Altri invece erano il prodotto dell’artigianato jurchen: i folti tappeti di lana, a disegni stilizzati, avrebbero fruttato molti nomismata nei mercati di Costantinopoli, e lo stesso valeva per i cuscini rivestiti di seta e per la spada incastonata di gemme.

Non c’erano mobili, all’infuori di una sedia. La vita nomade degli jurchen non permetteva loro di possedere arredi ingombranti. Tossuc e Orda si sedettero a gambe incrociate con un’agilità che Argyros, più giovane di entrambi, non poté fare a meno di invidiare. Il khan iniziò un vero e proprio bombardamento di domande: quanto era numeroso l’esercito romano, quanti cavalli possedeva, quanti erano gli uomini del primo meros, quanti quelli del secondo, e del terzo, e cosa c’era nei carri.

L’interrogatorio continuava. A ogni risposta Tossuc si voltava verso Orda, la cui espressione era impassibile. Infine, dopo un tempo che ad Argyros parve interminabile, le domande cessarono. Il khan, apparentemente soddisfatto, si girò a prendere una brocca di vino, sicuramente frutto di un saccheggio. Bevve, ruttò e passò la brocca a Orda. Lo sciamano tracannò una sorsata e ruttò ancora più rumorosamente, quindi porse la brocca ad Argyros che bevve sotto lo sguardo attento degli altri due. Il suo rutto fu meschino, ma bastò a soddisfarli, perché gli sorrisero battendogli le mani sulle spalle. Sembrava proprio che fosse stato accettato.

Nelle settimane seguenti, Argyros iniziò ad ammirare quei nomadi che un tempo aveva combattuto. Non si meravigliava più del fatto che essi potessero attaccare e saccheggiare i distretti romani di confine. Il loro genere di vita gli consentiva di procacciarsi solamente cibo e riparo, perciò per i generi di lusso dovevano rivolgersi ai loro vicini, con il commercio o con la guerra.

Capì anche il motivo per cui lo spreco di cibo era ritenuto un peccato capitale. Gli jurchen mangiavano tutto ciò che capitava loro a tiro: cavalli, lupi, gatti selvatici, topi... tutto finiva in pentola. I nemici li avevano soprannominati mangia-pidocchi senza nemmeno sospettare che il loro epiteto dispregiativo corrispondeva alla realtà.

Da anni Argyros conosceva la loro abilità nel combattimento, ma solo allora comprese come si tempravano quegli eccezionali guerrieri. Iniziavano a cavalcare e a tirare con l’arco a soli due o tre anni, e la lotta per la sopravvivenza li rendeva forti in un modo che l’uomo civilizzato non avrebbe mai potuto eguagliare.

Nonostante la sua perizia con l’arco e a cavallo, il romano non poteva certo ritenersi alla pari con i migliori nomadi. Fu invece grazie alle sue doti di lottatore che riuscì a conquistarsi il rispetto degli jurchen, meno abili dei romani nella lotta individuale. Dopo aver steso a terra un paio di guerrieri che l’avevano sfidato, quasi tutti iniziarono a trattarlo da pari.

Ma la sensazione di essere un cane in un branco di lupi non lo abbandonava. Quella sensazione era accresciuta anche dal fatto che erano ben pochi gli jurchen in grado di parlare il greco mentre la loro lingua, completamente diversa da tutte quelle che lui conosceva, era molto difficile e gli costava una grande fatica anche solo impararne qualche parola. Tossuc aveva poco tempo libero da dedicargli; organizzava gli spostamenti giornalieri e metteva pace tra gli uomini, che quando bevevano diventavano particolarmente litigiosi. Quindi, Argyros cercava sempre più spesso la compagnia dello sciamano, che non solo parlava il greco meglio di chiunque altro nell’accampamento, ma sapeva anche discorrere abilmente di argomenti che non fossero le greggi e la caccia.

Costantinopoli, la grande capitale da cui gli imperatori romani emanavano ordini da quasi mille anni, affascinava infinitamente Orda.

– È vero – domandava, – che per attraversare la città a cavallo occorre una giornata, che le mura si alzano fino alle nuvole e che ci sono dei palazzi con i soffitti d’oro?

– Non esistono città tanto grandi – rispondeva Argyros, pur senza averne la certezza. Egli proveniva da Serrhes, una cittadina della provincia di Strymon, nei Balcani, e non aveva mai visto Costantinopoli, ma non l’avrebbe mai confessato. – Chi mai costruirebbe mura tanto alte da impedire ai difensori di vedere i nemici? – continuava.

– In fondo hai ragione – annuì Orda soddisfatto. – Si vede che sei un tipo in gamba. Ma cosa mi dici a proposito dei soffitti d’oro?

– Quelli potrebbero esistere veramente – ammise Argyros. Chi poteva immaginare quali ricchezze si fossero accumulate in una città che era inespugnabile da mille anni?

– Comunque non ne parlerò a Tossuc – concluse Orda, ridendo. – L’avidità potrebbe farlo impazzire. Forza, bevi un po’ di kumiss e parlami ancora della città.

Argyros afferrò l’otre di latte di cavalla fermentato. Ne bevve un sorso e immediatamente comprese perché a Tossuc piacesse tanto il vino. Comunque, aveva la sua funzione; i nomadi erano gran bevitori, forse anche perché non avevano altri divertimenti, e lui stesso, che era sempre stato sobrio, da quando si trovava in loro compagnia si svegliava spesso con un gran mal di testa.

Una sera si ubriacò a tal punto da dire a Orda: – In fondo sei un brav’uomo, ma se non ti convertirai alla vera fede arderai nel fuoco eterno.